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Strategia come alternativa

Strategia come alternativa

Un giorno l’amico e mentore Francesco, detto “il Tigre”, mi corresse ruvidamente quando pronunciai nella stessa frase due plurali che riteneva orripilanti: strategie e alternative. Da vero colonnello quale era (si era guadagnato i suoi gradi affrontando valorosamente orchi e draghi nella prima metà degli Anni ‘90) mi “cazziò” dicendo: “Ricorda, strategia come alternativa”. Io, invece, che fulmine di guerra non sono mai stato risposi: “Come, prego?”. Ancor più duramente e con tono perentorio, replicò: “strategia come alternativa”.

Non ebbi il coraggio di chiedere ulteriori spiegazioni. Pensai si trattasse di una frase ermetica, da iniziati. Qualcosa di difficile da capire per un implume sottotenente come me. Eppure – continuavo a ripetermi – errori da matita rossa o blu non ne ho fatti nella formulazione della frase. Quelle parole mi ronzarono in testa per giorni. Poi… la chiave: il dizionario. Alternativa vuol dire letteralmente “possibilità di scelta tra due”, alter (latino) “l’uno dei due”. Perciò un’alternativa deve avere due termini di scelta. Un plurale travestito da singolare. Scoprii così che anche in linguistica ci si imbatte in scherzi di natura!

“Una è andata”, mi dissi. “Credo di aver capito, ma come la metto con strategie?” Passarono altri giorni. L’altra chiave tardava ad arrivare. Il dizionario non bastava. Mi rivolsi ad Andrea Filoni, dotto filologo, che sbrigativamente diede del matto al colonnello. Forte dell’appellativo appioppatogli dal fine linguista tornai carico di coraggio da “il Tigre” e feci: “Alternative mi è chiaro, ma con strategie brancolo ancora nel buio. Si tratta forse di uno scherzo?”. “Ragazzo mio – rispose laconicamente – la strategia non può che essere una”. “Chi parla di strategie – proseguì – non è uno stratega. Diffida sempre di costoro”.

Da quel giorno, per non ricadere nell’errore, bandii entrambi i plurali dal mio vocabolario.

Anni dopo il Gen. Fabio Mini mi fece scoprire Liddell Hart e Sun-tsu. La storia studiata fino ad allora fu ri-vista con occhi diversi. Mentre nell’Occidente civilizzato Sparta e Atene si massacravano (Guerra del Peloponneso, V sec. a.C.) e iniziava una produzione storiografica e di trattati tecnici (tattica, poliorcetica, logistica) che proseguirono sino all’arrivo di von Clausewitz, in quegli stessi anni, in Cina, il Maestro Sun-tsu scriveva “L’arte della guerra” (in cinese Ping-fa, modello di strategia), opera di un cinismo e pragmatismo assoluti.

Un trattato di arte militare sui generis, in cui non si invita a combattere ma a evitare di dare battaglia, a rifiutare un modello preordinato, a osservare la legge dello sforzo inverso, a non impegnarsi direttamente nella lotta, ad attendere che l’avversario – opportunamente diviso – faccia la prima mossa, a sviluppare la capacità di prevedere le mosse o la situazione del nemico, a non lasciarsi ingannare dalle apparenze, a usare sempre prudenza e cautela, ad assegnare la massima importanza alle informazioni e, non ultimo, a ricorrere sistematicamente agli agenti segreti. Un testo unico che nel corso dei millenni ha travalicato i suoi confini divenendo un caposaldo del pensiero negli ambiti più disparati.

In Europa, ma ancor più nel mondo occidentale, si è soliti pensare l’efficacia in termini di mezzi-fi ni. Sin da von Clausewitz, il mezzo migliore è quello che conduce più direttamente al fine prefissato.

Efficacia, dunque, come imperativo strategico. Nella guerra ogni impegno deve essere considerato il mezzo in vista di un fine che è la battaglia; la battaglia è a sua volta il mezzo di un fine, che è la guerra, e la guerra è il mezzo di un fine, che è politico. In questa costruzione piramidale, ogni livello intermedio è, allo stesso tempo, fi ne di un livello inferiore e mezzo di uno superiore.

Sul versante cinese non troviamo nessuna architettura del genere. La Cina non ha nemmeno elaborato la nozione di un mezzo che condurrebbe ad essa. La lingua cinese, come rimarca François Jullien, non possiede nemmeno un termine chiaro e preciso per indicare il termine “obiettivo”. Il pensiero cinese si sottrae all’idea di finalità e la dissolve. Si concentra piuttosto sull’interesse o il vantaggio. È la “logica della propensione” che si sostituisce a quella della finalità.

Che cosa è allora la strategia se non il reperimento, ab origine, di tutti gli elementi favorevoli, in modo da svilupparli e trarne il maggior vantaggio? Non si fissa, quindi, uno scopo in quanto costituirebbe un ostacolo all’evoluzione della situazione. Si sfrutta, invece, una disposizione.

In “Guerra senza limiti” (1999), scritto dai due colonnelli superiori dell’Aeronautica cinese, Qiao Liang e Wang Xiangsui, in cui per la prima volta si parla di guerra asimmetrica, è la guerra stessa ad essere cambiata: non gli strumenti, la tecnologia, le modalità o le forme della guerra, ma la “funzione della guerra”.

Anche la guerra – affermano – non è nemmeno più guerra, quanto piuttosto uno scontrarsi in “campi” diversissimi: nel mondo della comunicazione attraverso l’uso di Internet, o fronteggiandosi culturalmente attraverso i nuovi mass media, attaccare e difendersi in transazioni di cambio a termine. Anche i due colonnelli danno un nome alla loro teoria: “il sistema della combinazione”. Combinazione e non… combinazioni! Coincidenza?

  di Cristhian Re, Responsabile Security Cross Processes and Projects A2A e Comitato Scientifico S News

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