L’arte dell’Aikido a uso dei manager di Baum e Hassinger. Recensione di Cristhian Re
Non occorre necessariamente conoscere l’Aikido per avere la chiave di lettura di un libro del genere, più prezioso forse di un qualsiasi manuale del “buon manager“.
L’Aikido è un’arte marziale nobile di difesa personale, ma che praticata ai massimi livelli sembra di “attacco simultaneo”, così perlomeno amo definirla io da oltre trent’anni. Chi si difende, infatti, si muove nello stesso istante in cui l’avversario sferra l’attacco: attendere che il suo fendente cali come una mannaia sarebbe troppo tardi, si è spacciati. L’Aikido, a differenza delle altre, non si è mai trasformata in disciplina agonistica per una ragione assai ovvia: se lo fosse, uno dei due, l’attaccante, ci lascerebbe le penne. Ogni tecnica si conclude con terribili voli e la contestuale disintegrazione di una o più articolazioni. Il fondatore dell’Aikido, consapevole della letalità delle sue tecniche, decise che fosse una disciplina di solo allenamento. Chi si difende grazia al termine della tecnica chi attacca. L’esercizio può così ricominciare a ruoli rovesciati e proseguire, infortuni permettendo, per “tutta la vita”. Questo diceva il grande maestro Ueshiba. Chi è curioso, invece, di vedere cosa accadrebbe basta un film con Steven Segal (suggerisco Nico). Quella è comunque fiction, la realtà è peggio!
L’Aikido, il randori e il saper scendere dal tatami
Gli autori Baum e Hassinger cosa hanno fatto, quindi? Hanno compiuto una operazione a dir poco straordinaria, ovvero hanno trasfuso la filosofia dell’Aikido nell’azienda (occidentale) e nelle sue delicate dinamiche relazionali tra capo-collaboratore, collaboratore-capo, collega-collega, con il proposito di insegnare la via del randori, termine che racchiude un concetto fine e piuttosto articolato: essere al posto giusto, con la tecnica giusta e con il giusto livello di forza.
I principi di questa filosofia del corpo e dello spirito, se correttamente applicati in azienda, sono in grado di trasformare quest’ultima in un luogo certamente migliore.
La centralità del respiro, la ricerca dell’equilibrio, il distacco dal risultato, il ripudio dell’ovvietà, il valore del silenzio, la ripulsa del giudizio, la parsimonia nei consigli, l’approccio senza sforzo, l’unione all’avversario, la minimizzazione della complessità, la negazione dell’anormalità, la propensione al cambiamento, sono solo alcuni dei più significativi principi accuratamente descritti e sapientemente esemplificati. Ma su tutti giganteggia l’arte del disimpegno ovvero saper “scendere dal tatami” (il tipico tappeto su cui ci si allena). La locuzione indica la netta rinuncia all’azione. Quando il rispetto nei confronti del proprio partner di allenamento (o di un collega, in ambito lavorativo) è compromesso a causa di una condotta inappropriata, capace di creare danni o degenerare in una lotta sfibrante, bisogna avere il necessario coraggio e la determinazione di allontanarsi e scendere letteralmente dal tappeto. Regola aurea cui tutti dovremmo sempre attenerci. Un’avvertenza: la lettura dell’opera potrebbe costituire fonte di infelicità. Ci si rende conto che la conoscenza del corretto modo di agire e relazionarsi andrebbe inevitabilmente a cozzare con la generale ignoranza della filosofia aikidoistica e, quand’anche nota, con il marcato interesse da parte dei più nella disapplicazione sistematica di quei nobili principi.