Ben-Essere al lavoro, Giulia Cavalli: il riposo non è ozio
Probabilmente nell’immaginario di tutti noi ciò che definiamo “riposo” è agli antipodi rispetto all’idea di “lavoro”, d’impegno, di raggiungimento di obiettivi e risultati. Ma – come dice il titolo di quest’articolo che riprende l’affermazione di una studiosa americana, Mary Helen Immordino-Yang (2017) – riposarsi non vuol dire oziare. E il riposo appare tanto importante quanto il lavoro… anche quando si lavora! Lo testimoniano le neuroscienze, attraverso recenti ricerche che indagano l’attivazione cerebrale.
Il cervello è in una configurazione definita “a riposo” quando la persona si ferma a riflettere, quando ricorda qualcosa o immagina il futuro, sognando a occhi aperti e lasciando fluire liberamente i pensieri e le fantasie, in pratica quando viene portata l’attenzione verso l’interno di sé, distogliendola da ciò che è all’esterno. La capacità di girare lo sguardo al proprio interno è in grado di aumentare anche la capacità di porre attenzione verso l’esterno, condizione fondamentale nel mondo del lavoro in generale, tanto più in quello della sicurezza.
I tempi “morti” dell’attività lavorativa, caratterizzati da inattività, hanno in sé la fecondità della riflessione, che permette di dare un senso alle proprie esperienze e di prendere decisioni sul comportamento futuro. Sono numerosi gli studi che mostrano i benefici del cervello “a riposo” sul funzionamento emotivo e relazionale oltre che sul rendimento in ciò che si sta facendo, sulla comprensione delle situazioni e sulla creatività.
La questione interessante è che quando sono attivate le aree cerebrali deputate all’attenzione verso ciò che c’è all’esterno, le aree relative al “riposo” (e quindi alla riflessione) vengono disattivate e viceversa. In pratica si alternano. E la qualità dell’attività del cervello durante il porre attenzione all’esterno dipende dalla qualità che ha quando “riposa”. Non è un caso che chi ha ricevuto una formazione sull’introspezione (per esempio yoga, meditazione, rilassamento guidato, mindfulness, ecc.) migliora notevolmente le capacità di attenzione sulle attività lavorative.
Stravolgendo un luogo comune che ci siamo sentiti ripetere fin dalla scuola “Fai attenzione! Non distrarti sognando a occhi aperti!”, possiamo dire che la mente non è inattiva e dormiente se non ci sono attività dirette a obiettivi esterni, anzi! Avere tempi in cui distogliere l’attenzione da obiettivi, scadenze, richieste e così via è prezioso per vagare mentalmente, per immaginare.
Queste nuove conoscenze credo ci interroghino su più livelli.
Innanzitutto dovremmo rivedere alcune pratiche lavorative, dando uno spazio sistematico anche a momenti in cui il cervello può “riposare”, staccandosi dagli stimoli esterni. Non è un “perdere tempo”, ma un guadagnare in chiarezza ed efficienza (e anche in moralità, ci dicono le ultime ricerche).
Possiamo anche interrogarci su che fine abbia fatto il “sogno a occhi aperti” nella nostra quotidianità, quando – se abbiamo dei tempi morti – la nostra attenzione è nuovamente rivolta all’esterno, verso quello strumento tanto utile ma altrettanto invasivo che è lo smartphone. Spesso neanche quando si va al bagno (dove anche l’organismo beneficerebbe del cervello a riposo…) si molla l’attenzione verso le notizie al cellulare, i social networks, whatsapp, le mails e così via. Se diminuiscono i tempi di riposo per il cervello, le prestazioni lavorative saranno via via peggiori, l’attenzione sarà sempre meno focalizzata, le distrazioni e le inefficienze saranno dietro l’angolo.
Concludo con un esempio tratto da un esperimento classico sui bambini (Mischel et al., 1972, 1989), relativo alla capacità di auto-controllarsi e aspettare il momento giusto per agire, qualità importanti anche nel mondo del lavoro. I bambini che sanno trattenersi dal mangiare una caramella quando vengono lasciati soli, attendendo altri quindici minuti in modo da ottenere anche la caramella in più che gli è stata promessa, saranno adolescenti competenti dal punto di vista scolastico e socio emotivo e adulti di maggior successo, rispetto ai bambini che non erano in grado di ritardare la loro gratificazione in attesa della successiva ricompensa. È interessante notare che le differenze nelle strategie di pensiero utilizzate dai bambini per evitare di mangiare la caramella, sono associate alla durata della loro attesa: i bambini che si distraevano ed evitavano di guardare la caramella riuscivano ad aspettare piuttosto bene.
Ma la questione ancora più interessante per ciò che stiamo trattando in questo articolo è che i bambini che si erano focalizzati sul futuro e su possibilità ipotetiche, per esempio concentrandosi su come fosse delizioso il sapore della seconda caramella o immaginando che la caramella davanti a loro fosse una nuvola (in pratica attivando il cervello “a riposo” e distogliendo l’attenzione dall’esterno), erano in grado di aspettare ancora più a lungo.
Allora quale spazio di “riposo” (che non è ozio) possiamo concedere a noi stessi, ai nostri collaboratori o dipendenti?
Il benessere al lavoro passa anche da qui.
di Giulia Cavalli, psicologa psicoterapeuta, psicoanalista