Dante: sette secoli e l’attualità di una formula. La dignità e moralità del lavoro

«Alighieri Dante è condannato per baratteria, frode, falsità, dolo, malizia, inique pratiche estortive,
proventi illeciti, pederastia, e lo si condanna a 5000 fiorini di multa, interdizione perpetua dai pubblici
uffici, esilio perpetuo (in contumacia), e se lo si prende, al rogo, così che muoia».
[Archivio di Stato di Firenze – Il Libro del Chiodo]
Che ci azzecca Padre Dante con la Sicurezza? Ci azzecca, ci azzecca. Credo che il Sommo abbia pensato proprio al nostro mestiere in più di un caso; a partire dalle indicazioni per non smarrire la diritta via.
In un mondo accecato da nuovi massimalismi e che esige iper-specialisti, non si possono perdere di vista i fondamentali: non possiamo sottrarci al quesito di quanto nella professione sia tecnologia e quanto “Arte”.
Se confitti nella mente, la cosmologia e l’ordinamento morale danteschi valgono più di qualsiasi codice etico, policy, procedura, etc. di cui un’azienda possa dotarsi; strumenti, questi, certamente indispensabili ma che evidenziano limiti e intrinseca debolezza.
Ancora prima della nostra Costituzione (art. 1, “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”), Dante rimarca nell’XI dell’Inferno, il “canto-chiave” dell’intera Commedia, la sacralità e la centralità del lavoro, inteso non solo come occasione di guadagno, ma come riconoscimento massimo della dignità umana, per cui una società senza lavoro è una società senza dignità:
“Che l’arte vostra quella, quanto pote,
segue, come ’l maestro fa ’l discente;
sì che vostr’arte a Dio quasi è nepote”
Parafrasando, il nostro lavoro imita, per quanto può, la natura così come l’alunno imita il maestro; talché l’umana operosità sembra promanare dal divino.
Nel pensiero medievale, infatti, i prodotti del lavoro umano (Arte) avevano il loro fondamento nella manifestazione della mente divina: la Natura che l’uomo era chiamato a imitare.
Se la Natura origina da Dio, l’Arte, con l’arguzia del Poeta, può ben esserne nepote.
Probabilmente i nostri Padri Costituenti, intrisi di quella cultura che oggi si ritiene anacronistica, avrebbero voluto riportare integralmente la terzina, ma la “Ragion di Stato” ha cautamente suggerito loro una sua asciutta riduzione in prosa perché potesse essere più facilmente spacciata per un articolo di legge e non un plagio letterario.
Benigni si spinge ben oltre: “Fare una scarpa o la cattedrale di Santa Croce è come creare il grano o il mare, cioè creare bellezza, che è quello che fa il lavoro quando è svolto al massimo della sua dignità”. Noi aggiungiamo che realizzare una cornice di sicurezza efficace intorno al patrimonio, materiale e non, delle aziende costituisce anche un’arte a tutela di quella, Maggiore, che costituisce la “Mission” aziendale.
Se fossimo tutti retti e corretti basterebbe questo per vivere felici in un mondo perfetto, tra gente per bene. Ma poiché l’uomo è incline al male non meno che al bene, Dante ci spiega con una sola pennellata, come nessun altro, il concetto di frode, al quale le aziende sono assai sensibili pur senza, spesso, dotarsi di strumenti sufficienti per contrastarne il dilagare:
“Frode è de l’uom proprio male”
La frode è vizio dell’uomo e trova, infatti, fondamento nella ragione. Molto ha l’uomo in comune con l’animale, ma non la frode, che è cosa sua; ma Arte non è.
La malvagità fraudolenta può essere usata contro quelli che non si fidano (frode semplice) e, peggio ancora, contro quelli che si fidano (frode composta). La prima tipologia lede il solo vincolo di natura, avremo così quelle categorie umane assai note anche in azienda, a mero titolo esemplificativo: i barattieri (un termine desueto che indica quei valentuomini che si fanno corrompere per denaro o altra ricompensa), i ladri, gli ipocriti (galantuomini che mostrarono di comportarsi in modo diverso dalle loro reali intenzioni), gli adulatori, i falsari, etc. La seconda tipologia, invece, lede oltre al vincolo di natura, anche quello della fiducia. Avremo così i traditori (da non confondere con gli adulteri o lussuriosi, che dir si voglia) in una gradatio ascendente: i traditori dei parenti, della patria, degli ospiti e, infine, dei benefattori (chi ha fatto solo e disinteressatamente del bene agli altri).
La più grave offesa a Dio è tradire, nell’accezione latina del termine: consegnare al nemico qualcuno o qualcosa che si sarebbe dovuto difendere, oppure consegnare se stessi. La pena è nelle acque ghiacciate del Cocito, che intrappolano i corpi di questi malvagi in una totale assenza di movimento. Sublime il contrappasso (il lago infernale riflette per analogia il gelo nei sentimenti); vetta letteraria mai raggiunta prima (e dopo) da genio umano. Dante, quindi, ha le idee chiare: nessuna pietà.
Dante, in sostanza, impone anche all’uomo digitale del Terzo Millennio una profonda riflessione sui suoi rapporti sociali, gli insegna a riconoscere ogni genere di frode e i relativi autori, lo spinge a penetrarne le ragioni più profonde per contrastare più efficacemente gli effetti e, infine, lo mette in guardia dal mostrare maggiore pietà di quanta ne riserva Dio. Il Poeta, insomma, fu pure un Fraud Manager con i controfiocchi, il primo della storia: più Maestro che… illustre collega. Ovviamente.
Non fu certo il tradimento a difettare alla nostra storia nazionale. Dante fu accantonato per secoli. Ai suoi detrattori e ai suoi persecutori sarebbe costato meno permettergli di agire secondo il Suo metro. C’è voluta proprio la Storia per risarcirlo del Male patito.
Buon Lavoro!
