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E questo come si fa? Imparare e insegnare al lavoro

E questo come si fa? Imparare e insegnare al lavoro

Fin da quando siamo piccoli non facciamo altro che imparare come “gira il mondo”, grazie al confronto  continuo con la realtà quotidiana e con persone che hanno fatto già esperienze prima di noi. I nostri genitori, gli insegnanti a scuola, gli istruttori sportivi ci hanno introdotto a nuove conoscenze, a modi di vedere e comprendere le cose e agire nella realtà. E così è ancora oggi: da adulti ogni giorno apprendiamo qualcosa e, forti della nostra esperienza, trasmettiamo le nostre conoscenze ad altri.

Nel mondo del lavoro questo si vede facilmente quando s’inizia un nuovo lavoro o vengono cambiate delle procedure: è una sfida, che può generare anche paura, perché sembra tutto così tremendamente difficile da ricordare, fare, sapere… E allora cerchiamo di apprendere ciò che non sappiamo, di acquisire nuove conoscenze. E la differenza nella riuscita dell’apprendimento non la fa solo la nostra determinazione e capacità, ma anche chi ci insegna (come ben dimostrano i ricordi scolastici di tutti noi).

Quanto scritto fin qui sembra decisamente banale e ovvio. Ma fermiamoci un attimo: davvero accade questo? Davvero imparare significa acquisire conoscenze “in più”? Guardiamo alla nostra esperienza: quando dobbiamo affrontare una novità lavorativa o insegnare a qualcuno come svolgere il nostro lavoro, cosa accade nella mente? Probabilmente ci possiamo accorgere che non si parte completamente da zero nella conoscenza, ma semplicemente (si fa per dire…) è richiesto di richiamare alla mente alcune  conoscenze che già abbiamo e riorganizzarne altre. Già Socrate, quattro secoli prima di Cristo, aveva proposto questa concezione, che ci fa cogliere che: 1) quando apprendiamo qualche procedura o lavoro nuovo, inutile andare in panico: abbiamo bisogno di una visuale chiara per ricomporre le tessere del puzzle in maniera differente, ma le tessere sono già in mano nostra! 2) quando affianchiamo qualche nuovo collega per insegnare “come si fa” è utile cercare di cogliere ciò che già sa il collega e in che maniera vede le cose, per poi aiutarlo a riorganizzare i suoi apprendimenti in maniera finalizzata al nuovo lavoro.

Anche queste idee, in fondo, sono piuttosto note. Ma c’è di più. E ci arriva dalle neuroscienze, una recente e affascinante branca di studi che studia il funzionamento cerebrale. L’apprendimento non è acquisizione, ma riorganizzazione e lo abbiamo visto. L’apprendimento è anche perdere delle conoscenze che si avevano. Può servire dimenticare per poter imparare qualcosa di nuovo, togliendo dalla mente ciò che occupa spazio inutilmente (perché ora non ci serve più) e ciò che ostacola l’acquisizione di un nuovo pensiero efficace.
Per cogliere profondamente quest’affermazione riprendo un esempio del neuroscienziato cognitivo Mariano Sigman (“The Secret Life of the Mind: How Your Brain Thinks, Feels, Decides”, Little Brown & Co., New York, 2017), che riguarda un importante apprendimento di noi tutti: la scrittura. Se non ci ricordiamo com’è andata, è sufficiente osservare un bambino scrivere le sue prime lettere. Facilmente le scriverà come se fosse allo specchio (come Leonardo Da Vinci), andando all’indietro. Nessuno gli ha insegnato a scrivere al contrario (la scrittura a specchio è molto difficile!), lo hanno imparato da soli. Nel cervello succede questo: il sistema visivo converte luci e ombre negli oggetti che noi vediamo.

Solitamente gli oggetti si muovono, per cui normalmente il sistema visivo è interessato a cogliere l’oggetto in sé, più che il suo orientamento, che potrebbe per esempio ruotare da destra a sinistra o viceversa (un gatto visto di fianco o di fronte, capiamo subito che è lo stesso gatto). Una dimostrazione ne è il fatto che tutti ricordiamo bene com’è fatta la Statua della Libertà, ma… con che mano tiene sollevata la torcia? Ecco, bisogna pensarci, proprio per questa proprietà del nostro cervello, che si disinteressa dell’orientamento. Ma questa capacità innata del nostro sistema visivo viene messa in crisi dagli apprendimenti culturali, come la scrittura, dove la “p” allo specchio diventa una “q” e se gira a testa in giù è una “b” e una “d”. L’orientamento cambia la lettera. Il circuito cerebrale che guida l’apprendimento è ancestrale; le convenzioni culturali – come l’alfabeto – che sono di recente acquisizione per la storia della specie umana, vanno contro il naturale funzionamento. Allora per imparare in questo caso è necessario sradicare una predisposizione.

Il cervello, fin dalla nascita, non è una lavagna vuota da riempire, ma – ci spiega Sigman – una superficie ruvida su cui alcune forme si adattano bene e altre no. L’apprendimento è quindi un processo dato dalla convergenza tra la nostra predisposizione ad assimilare conoscenze e ciò che ci viene presentato e insegnato. Imparare significa far corrispondere la forma di ciò che ci viene spiegato con ciò che già possediamo. La nostra vita è costellata di “rivoluzioni” date dall’apprendimento. Pensiamo all’idea della Terra piatta, che è del tutto congruente con ciò che percepiamo, che abbiamo dovuto scardinare quando ci hanno detto che invece è tonda.

Abbiamo imparato che le persone dall’altra parte del globo non cadono giù e nemmeno la Terra cade nello spazio. Poi ciascuno trova le soluzioni per dare un senso a queste rivoluzioni, in cui bisogna dimenticare delle cose, a partire dagli strumenti che ha (ci si potrebbe spiegare che la Terra non casca perché ci sono degli elefanti che la sostengono, come nei miti antichi, o perché c’è un movimento orbitale ecc. ecc. come spiegherebbe un fisico). Ovvero: ognuno trova soluzioni per assimilare un nuovo apprendimento secondo il proprio quadro concettuale. Se dobbiamo imparare un nuovo lavoro o insegnarlo, partiamo dal presupposto che il quadro concettuale che abbiamo è diverso da quello dell’altro. Per spiegare qualcosa bisogna non solo e non tanto usare un linguaggio semplice, ma tradurre ciò che si conosce in un linguaggio vicino a ciò che l’altro sa.

Ma come si fa a entrare nel mondo concettuale dell’altro?
Un efficace esperimento ha dimostrato che la prestazione a un compito viene migliorata circa del 100% quando ciò che dev’essere affrontato viene riformulato con le proprie parole, rispetto a chi prende il problema come gli viene presentato e cerca di affrontarlo direttamente così. Certo, riformulare prima di affrontare un lavoro richiede un po’ più di tempo, ma l’efficacia viene premiata. Teniamolo presente quando al lavoro c’è da imparare qualcosa, risolvere un problema o affiancare un nuovo collega.
E anche quando c’è da capire o farsi capire dai propri famigliari…

di Giulia Cavalli, psicologa psicoterapeuta, psicoanalista

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