
ICSA, la Fondazione presieduta dal Generale Leonardo Tricarico, presenta lo studio “Conflitti e sicurezza tra Libia e Sahel“, realizzato dal neo costituito Osservatorio ICSA per la Sicurezza del Mediterraneo (OISMed), diretto dal professor Andrea Beccaro.
Lo studio, che rappresenta “uno sguardo grandangolare al problema libico”, come gli autori evidenziano, è stato curato dal Direttore Beccaro.
Il volume si articola in sei saggi, che prendono in esame diverse problematiche che alla fine offrono al lettore un quadro della situazione tra Nord Africa e Sahel. Autori dei saggi sono Carlo De Stefano con Osservatorio Mediterraneo, Andrea Beccaro con Il ruolo degli attori non statuali: nuove sfide politiche e tecnologiche, Michela Mercuri con La Libia come chiave di volta, Giancarlo Capaldo con Il terrorismo in Africa e il Mediterraneo, Alessandro Locatelli con La costa senza confini. I flussi criminali nella regione del Sahel, Filippo Tiburtini con La formazione e l’addestramento delle forze di sicurezza nella regione del Sahel. Il ruolo della cooperazione internazionale.
Il volume si chiude con alcune linee guida per la ricomposizione della crisi libica e la stabilizzazione dell’Area Saheliana.
I TEMI DELLA RICERCA
“Lo studio – spiega il Direttore dell’Osservatorio – prende in esame l’instabilità della Libia guardandola però da una prospettiva diversa, non nord-sud (ovvero dall’Europa e dall’Italia), bensì sud-nord, ossia analizzando le cause di quella situazione e prendendo in esame la perdurante instabilità in Libia e nell’area del Sahel dove agiscono molti gruppi non-statuali variamente legati al terrorismo internazionale di stampo jihadista ed a importanti flussi criminali”.
Ormai da alcuni decenni l’intera aerea del Mediterraneo allargato è interessata da una profonda e diffusa instabilità legata a diversi fattori. Indubbiamente la fine della Guerra fredda ha portato un costante e inarrestabile moto di ristrutturazione delle dinamiche internazionali che hanno un impatto anche sull’area qui in esame. Nuovi attori si sono affacciati cercando di colmare il vuoto lasciato da altri. I radicati problemi economici hanno indubbiamente alimentato il malcontento su più livelli. Varie dinamiche conflittuali poi si sono sovrapposte a questi problemi e hanno a volte causato, altre volte approfittato, della diffusione nell’area di ciò che possiamo definire failled states, ovvero stati che per le più disparate ragioni non sono più in grado di controllare il loro territorio, o anche solo parte di esso, che quindi diventa la base per milizie e gruppi non statuali che variamente si collegano al problema del terrorismo internazionale di stampo jihadista.
“A causa di queste complesse dinamiche – dichiara il Prefetto Carlo De Stefano, Vicepresidente di ICSA – è essenziale che l’Unione Europea decida finalmente di assumere un ruolo di impulso e di guida decisivo nella ricomposizione della crisi libica e nel coordinamento operativo, delle forze militari dei Paesi europei presenti nell’area saheliana, auspicando allo stesso tempo un impegno più incisivo degli Stati Uniti ed un coinvolgimento più costruttivo di Cina e Russia nella prevenzione del terrorismo criminal-jihadista”.
Il lavoro mira quindi a offrire uno sguardo variegato e approfondito su un’area cruciale per comprendere l’instabilità in Libia e nel Nord Africa in generale, ovvero il Sahel. Una regione che coinvolge la fascia a sud del deserto del Sahara e copre molti stati africani e, come è facile intuire, presenta una varietà di situazioni, culture e problematiche molto vasta. Tuttavia comprendere meglio quali sono le dinamiche legate alla sicurezza che oggi attraversano quei Paesi e influenzano quell’area è fondamentale se si vuole realmente comprendere l’insicurezza e l’instabilità nel Nord Africa che a sua volta ha un forte impatto su quella dell’intera regione del Mediterraneo allargato.
Attori non-statuali: l’impatto delle nuove tecnologie sull’approccio tattico-operativo e sulle modalità d’attacco
Il lavoro mette in luce diverse problematiche che influenzano profondamente la sicurezza e la stabilità dell’intera regione e che quindi hanno poi conseguenze importanti sulla Libia e di riflesso sull’Italia e l’Europa. Innanzitutto sussiste una difficoltà della comunità internazionale di relazionarsi in modo efficace e continuativo con l’intera regione. L’assenza di tale approccio ha portato a vuoti di potere e all’assenza di strategie e contribuito allo sviluppo di situazioni instabili ed economicamente precarie, creando il retroterra perfetto per la crescita di gruppi di varia natura in lotta contro l’ordine statuale costituito. Secondariamente, la continua e crescente presenza di attori non-statuali, e di conseguenza l’impatto che riescono ad esercitare, porta con sé diverse problematiche. Da un lato, tali attori, protagonisti della politica regionale, sperimentano una maggiore flessibilità di movimento rispetto alle locali forze di sicurezza, muovendosi liberamente tra i vari confini statuali e adottando tattiche basate su rapidità e sorpresa che limitano le capacità operative di più tradizionali eserciti e politicamente sono meno sensibili ai tradizionali approcci della sicurezza. Dall’altro lato, tali attori risultano estremamente moderni ed in grado di impiegare la tecnologia più evoluta per adattarla alle loro esigenze e riuscire quindi a sfruttare le falle della sicurezza nemica. Oggi siamo di fronte a un ulteriore salto in avanti del rapporto tra gruppi irregolari e tecnologia. Infatti, i moderni sviluppi tecnologici (dalla comunicazione al digitale, dall’intelligenza artificiale alla stampa 3D, dai droni alla bioingegneria) non sono chiusi in segretissimi laboratori militari bensì sono, per la maggior parte, disponibili in qualche forma sul libero mercato e dunque anche per i gruppi irregolari e le formazioni jihadiste. ISIS in Siria e Iraq ha ampiamente sperimentato droni per compiti di ricognizione e sviluppato rudimentali azioni offensive sia comprando semplici droni commerciali per poi modificarli per le proprie esigenze sia costruendo i propri droni con pezzi di recupero come piccoli motori a scoppio, lamiere e un cellulare come strumento di guida. I droni di queste milizie, pur non riuscendo ancora ad avere un impatto determinate sul campo di battaglia, consentono agli attori non-statuali attacchi oltre i confini e le difese perimetrali; possono essere schierati in massa per supportare sia un attacco su più fronti sia più attacchi nel corso del tempo; possono essere uno strumento per la diffusione di armi di distruzione di massa.
La Libia come chiave di volta
Dopo la caduta del regime di Gheddafi nel 2011, la Libia è diventata sia lo sbocco dell’instabilità del Sahel sia la porta di ingresso di quella instabilità verso l’Italia e l’Europa. Di conseguenza la stabilizzazione del Paese, e per quanto riguarda l’Italia il rafforzamento dei rapporti politici economici nel quadro di una maggiore sicurezza locale, è un passo essenziale al fine di rallentare e contingentare il flusso di traffici criminali (legati al traffico di droga, armi e simili e all’immigrazione clandestina). La recente elezione del nuovo Governo di unità nazionale, guidato da Abdul Hamid Dbeibah, che dovrà traghettare la Libia verso le elezioni previste per il prossimo 24 dicembre, ha riacceso le speranze per un nuovo processo di stabilizzazione del Paese. Tuttavia, le incognite da affrontare sono molte e tra queste spiccano le radicate rivalità tra milizie ben armate che da ormai 10 anni hanno occupato porzioni di territorio e potere crescente in molte zone del Paese e la presenza di attori stranieri sul terreno (è stato calcolato che i mercenari legati a Turchia e Russia siano circa 4700). Nonostante l’avvio del “processo di pacificazione” il Paese resta frammentato, infiltrato da mercenari stranieri, miliziani jihadisti e trafficanti.
Jihadisti, milizie e mercenari siriani: tutti i rischi della “connection libica”
Nella complessa galassia delle formazioni libiche sono state ricomprese le attività di elementi legati ad al-Qaeda nel Maghreb islamico (AQMI). Ma nell’attuale contesto libico, lo sfaldamento delle istituzioni libiche e la deriva securitaria del Paese hanno contribuito al riemergere di gruppi della galassia jihadista ed alla costituzione di nuove formazioni. In primis, lo Stato islamico in cui sono confluiti sia i numerosi libici che hanno combattuto sul fronte siriano e iracheno nelle fila del Califfato o dell’allora Fronte qaedista al-Nusra, ma anche gruppi estremisti già presenti nel territorio, come Ansar al-Sharia. Un altro filone è rappresentato da una componente non islamista ma politica, ossia gli ex soldati e quadri del regime di Gheddafi che hanno aderito all’ISIS per protezione personale, per perseguire una rivincita militare o più semplicemente per portare avanti le loro vendette intertribali. La sconfitta del Califfato nella sua ultima roccaforte di Sirte, nel 2016, non ha implicato la fine della presenza dell’organizzazione all’interno del Paese. Parte dei combattenti presenti nella città si è rifugiata a sud, nel Fezzan, luogo di traffici e santuario di gruppi terroristici. Secondo le stime dell’United States Africa Command, agli inizi del 2017, erano ancora presenti nell’ex Jamahiriya più di 500 miliziani dell’ISIS. Nei mesi successivi i flussi di jihadisti sono ripresi con maggior vigore, con arrivi di nuova “manovalanza” dalla Siria e dall’Iraq, grazie al sostegno di alcuni Paesi che hanno supportato le milizie islamiste in Siria e che avevano la necessità di liberarsene progressivamente per il mutato quadro politico del conflitto. A ciò si aggiunga che dal 2019 la Turchia ha inviato in Libia, a sostegno delle milizie fedeli all’ex leader del Governo di accordo nazionale (GNA) Fayez al-Serraj, migliaia di mercenari tra cui alcuni affiliati allo Stato islamico, accrescendo, dunque, il numero di presenze nell’area costiera libica. L’Osservatorio siriano per i diritti umani, aveva stimato che circa 4.700 mercenari siriani, appoggiati dalla Turchia, erano stati inviati in Libia e, tra loro, almeno 130 erano ex combattenti dello Stato islamico o di al-Qaeda. A dicembre del 2020, dopo la fine della lunga guerra tra l’esercito nazionale libico (LNA) di Khalifa Haftar e le milizie fedeli al Governo di accordo nazionale di Fayez al-Serraj sarebbero presenti nell’ex Jamahiriya almeno 20.000 militari stranieri e mercenari.
Il terrorismo e il Sahel
Non è possibile capire l’instabilità del Nord Africa e della Libia se non si guarda alla diffusione del terrorismo di stampo jihadista nel Sahel. Il terrorismo, infatti, si pone in quella regione, ma non solo lì, come strumento sia della politica per il contrasto a regimi più o meno dittatoriali sia di natura militare per la conquista del potere (statuale, regionale, tribale) sia, infine, operativo per l’acquisizione e lo svolgimento di attività economiche e finanziarie, spesso di natura criminale. “In questo senso, è indispensabile – secondo il Dottor Giancarlo Capaldo, Consigliere scientifico della Fondazione Icsa – migliorare la conoscenza della realtà storica, politica ed economica dei singoli territori e delle specifiche realtà regionali e sub-regionali, contestualizzando le azioni terroristiche, individuando i motivi specifici di ogni singola azione e monitorandone gli effetti, anche attraverso un rapporto tra Paesi europei e Stati africani che non sia soltanto una rivisitazione aggiornata degli antichi rapporti coloniali”. Il terrorismo in Africa ha incrementato esponenzialmente negli ultimi anni le sue capacità operative e dunque il suo impatto politico: nel 2015 si sono registrati 381 attacchi contro civili in Africa che hanno provocato 1.394 vittime, ma nel 2020 ci sono stati 7.108 attacchi contro civili che hanno quasi decuplicato le vittime (12.519). Ciò dimostra chiaramente come l’intero continente africano, e il Sahel per quanto riguarda la ricerca condotta, sia diventato il campo di battaglia principale del terrorismo jihadista internazionale.
Terroristi o criminali?
Guardando i flussi di attività criminali di ogni genere che si diramano dal Sahel la domanda appare più che legittima, ma la risposta è estremamente più complicata. Nella realtà dei fatti però non esiste distinzione. Come mette in luce la ricerca, i gruppi terroristici sono poi gli stessi che traggono profitto dalle più disparate attività criminali che si svolgono nella regione. Le rotte seguite, gli attori coinvolti e i guadagni, tutto ciò viene impiegato dagli stessi gruppi. Secondo Alessandro Locatelli, analista della Fondazione Icsa ”il terrorismo si autofinanzia con questi traffici molto lucrativi e sfrutta quei soldi per implementare le sue capacità e ampliare il proprio raggio d’azione. La struttura a rete poi diventa un elemento distintivo sia dei traffici illegali, perché permette di ottimizzare il trasporto, minimizzando il numero di trasporti ma non le merci e i percorsi, sia dell’organizzazione stessa dei gruppi terroristici che diventano più difficili da combattere per le forze di sicurezza”.
Il Sahel e il coinvolgimento occidentale
Come viene messo chiaramente in evidenza nella ricerca, il Sahel regione ampia e difficilmente definibile attraverso precisi confini, è il fulcro dell’instabilità presa in esame. Ciò ha portato da diverso tempo vari Paesi occidentali a intervenire più o meno direttamente per cercare di arginare l’instabilità locale. Importanti sforzi sono stati fatti nella cosiddetta Riforma del Settore della Sicurezza (RSS) per cercare di implementare le capacità delle forze locali e in questo settore il ruolo della comunità internazionale è stato sicuramente significativo. L’UE ha ampiamente puntato sulla cooperazione e ha lanciato tre missioni, la Francia è indubbiamente una protagonista, anche per via della sua storia coloniale, ma non è assente nemmeno l’Italia. I problemi di fondo però restano l’efficacia e i fondi per tali interventi i cui risultati non sono ancora determinanti.
Il Sahel e l’impegno dell’Italia
Il nostro Paese è impegnato nella missione MINUSMA, nelle missioni PSDC EUCAP Sahel Niger e Mali, EUTM Mali e nel progetto GAR-SI SAHEL (Groupes d’Action Rapides – Surveillance et Intervention au Sahel). Quest’ultimo programma ha come obiettivo di contribuire a rafforzare le capacità operative delle autorità nazionali per consentire un controllo efficace del territorio ed estendere l’azione dello Stato di diritto all’intero Sahel creando unità di polizia robuste, flessibili, mobili, multidisciplinari e autosufficienti che consentano un controllo adeguato del territorio. Il 15 gennaio 2021, dopo quattro settimane di addestramento, si è concluso il corso di Tecniche di Intervento Operativo a favore proprio dell’unità del GAR-SI della Gendarmeria e di Ordine Pubblico a favore della Guardia Nazionale nigerina (addestrati 64 militari nigerini), entrambi condotti da un Mobile Training Team (MTT) dei Carabinieri composto da sette istruttori. Le attività di supporto allo sviluppo della RSS vedono Roma anche protagonista di una attività di cooperazione bilaterale e di supporto al Niger lanciata nel 2018 nell’ambito della Missione Bilaterale di Supporto nella Repubblica del Niger (MISIN). L’intervento è diretto alla formazione delle forze armate nigerine per il contrasto al terrorismo e a rafforzarne la capacità di controllo delle frontiere. Le forze italiane impiegate in loco all’inizio del 2020 sono composte da un centinaio di effettivi, per un numero complessivo di circa 2.600 unità locali formate e addestrate dall’inizio dell’intervento.
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la Redazione