
“Se ne ride chi abita i cieli. L’abate e il manager: lezioni di leadership fra le mura di un monastero” è un testo che scuote, percuote, converte.
Se si è davvero pronti a tutto questo, cari managers, è certamente il libro che fa per voi.
È la storia di un percorso introspettivo che conduce a una graduale presa di coscienza e alla redenzione-riscatto del protagonista, Giorgio, un brillante manager di alto livello (verosimilmente un Direttore Marketing). Ad accompagnarlo in questo difficile cammino saranno Ettore, abate di un non meglio identificato monastero benedettino, e la sua comunità di monaci. Il Caso conduce il manager al monastero, dove gli viene generosamente offerto asilo per una notte. Tra i due nasce un serrato confronto che tocca i più disparati campi dello scibile, la vita professionale, quella personale e quella ancora più intima della sfera religiosa.
L’abate guida il suo ospite in quattordici “loci” (tanti quante le stazioni della Via Crucis), quelli indicati nella piantina del monastero a pag. 1, quasi che un Eco rimandi a “Il nome della rosa”. In ciascuno di essi assistiamo a una progressiva evoluzione: l’arrogante manipolatore narcisista, un sociopatico, si muta nell’uomo più pieno di se che di sé, consapevole del valore di quell’accento.
Nota biografica di rilievo anche per la chiave dell’opera e la comprensione dei suoi differenti piani di lettura: l’autore, Giulio Dellavite, nella vita è un prete secolare, più esattamente un Monsignore. Egli compie un’operazione piuttosto audace: scrive un romanzo in forma dialogica in prima persona facendolo così apparire una sorta di autobiografia o, quantomeno, un lungo racconto personale. L’io-narrante, contrariamente a quello che saremmo indotti a ritenere, è il manager! L’autore, quindi, dà voce e veste i panni del manager che intraprende a sua insaputa il viaggio forse più difficile della sua vita: quello dentro sé stesso. E poiché ad interloquire con quest’ultimo sono tutti sacerdoti, proprio come Dellavite, è come se questi ingaggiasse da subito un acceso e vibrante dialogo con sé stesso a suon di citazioni. Quasi incalcolabili i coltissimi riferimenti letterari, cinematografici, filosofici, politici, linguistici, sociologici, sapienziali, ecc. (non c’è pagina che non ne contenga almeno un paio) che aprono a profondissime riflessioni, anche di natura etica ed esistenziale, in grado di mettere con le spalle a terra chiunque manifesti una qualche incrollabile certezza. L’unica certezza, qui, è la miseria umana di cui Giorgio (il manager) è tronfio interprete.
Oltre all’abate e ai monaci, persino Stella, la cuoca del monastero, gli insinua il dubbio facendo breccia nelle sue verità. Da lì ciascuno a modo suo inizia a scavare con il piccone della ragione e il grimaldello dell’esempio sino alla demolizione delle sue fatue sovrastrutture e al totale soffocamento della “hybris” (tracotanza), un tempo considerata grave colpa, oggi sindrome di intossicazione da potere di cui pare sia affetta larga parte della classe dirigente. Gli ambienti come la biblioteca, la farmacia, l’orto dei semplici, il refettorio, il cortile, l’infermeria, ecc. diventano luoghi di mondezza (non già “monnezza”) di idee, propositi e comportamenti. E così insieme all’abate, Dom Ettore (che ammicca al Virgilio di Dante), conosciamo gli altri saggi monaci: il bibliotecario, il farmacista, l’ortolano, ecc., artefici tutti del cambiamento del nostro manager. Ma su tutti spicca dom Giuseppe, l’umile monaco portinaio, il vero eroe della storia che si svela solo da pag. 186. Un sagace vecchietto che sotto un carattere goliardico e ironico cela la mente più acuta del monastero. Un uomo di illuminata sapienza, dissimulatore per vocazione, considerato dall’abate stesso suo maestro. La sua filosofia di vita è racchiusa nella frase che dà il titolo al libro: “Se ne ride chi abita i cieli”, un invito a prendere la vita con leggerezza, a planare sulle cose dall’alto, ad assumere il cielo come punto di osservazione della vita, delle persone, della storia (grande o piccola che sia). Forse un metodo più che una filosofia che tutti dovrebbero adottare, soprattutto i managers, in quanto capace di restituire il senso della misura, del limite e dello humor che troppo spesso si perdono per rincorrere vanagloria e potere.
Più che un artifizio retorico, quello realizzato da Dellavite è un comune gioco di specchi dove Giulio, Giorgio, Giuseppe sono evidentemente la stessa persona ed ognuno dei personaggi chiamati in causa si rifletterà nella figura del manager così come è venuto trasformandosi portandone a piena unità le singole sfaccettature. Forse non è un caso che le iniziali di Giulio, Giorgio e Giuseppe si accompagnino all’essere l’uno il Monsignore-autore, l’altro il Manager e, infine, il Monaco-maestro. 3 G e 3 M per richiamare, forse, un solo Soggetto.
In fondo, nella nostra teogonia gli angeli si muovono sempre con l’estrema leggerezza di chi altro non è che messaggero di Dio: una leggerezza che spinge naturalmente verso l’alto, negli spazi dove regna solo il sorriso. Un modello.