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L’importanza di (non) essere geometri

L’importanza di (non) essere geometri

Cosa fa di un generale un buon generale? Alla domanda Platone risponde così: “Per assediare un accampamento, per prendere una fortezza, per concentrare o dispiegare un esercito e fargli compiere le proprie manovre, sia in battaglia, sia in marcia, un generale si rivela più o meno abile a seconda che sia o non sia un geometra” [Repubblica].

Dunque, per essere un buon generale, un generale “abile”, è necessario essere un buon geometra. E, come noto, la geometria (γεωμετρία, composto di γή = “terra” + μετρία = “misura”, letteralmente: misurazione della terra) rappresenta la modellizzazione perfetta, il modello del modello, una questione di angoli, figure, forme nel piano e nello spazio e delle loro mutue relazioni. In greco – sostiene Piergiorgio Odifreddi in un interessante articolo – geometria significava infatti «agrimensura», e in egiziano i praticanti di quest’arte venivano chiamati harpedonaptai, «tenditori di funi». La corda tesa era uno strumento molto versatile, che poteva allo stesso tempo servire da riga e compasso. Con essa si poteva effettuare tutta la geometria descritta da Euclide nei suoi Elementi, che per motivi estetici e filosofici si limitavano appunto alle costruzioni effettuabili con riga e compasso.

Chiunque mastichi un po’ di arte militare per averne coltivato o praticato l’interesse sa bene che la guerra è ciò che devia sempre da quanto si è progettato. Nella guerra, come nel lavoro o nella vita privata, nulla si svolge come si era previsto e modellizzato. Spesso accade che la modellizzazione si areni nella prassi. Von Clausewitz individua nell’ “attrito” la causa dell’arenamento del modello [Sulla guerra]. Tra il piano stabilito e il dispiegarsi delle operazioni si collocano le c.d. “circostanze” (composto di circum + stare = letteralmente: stare attorno). Le circostanze emergono quando meno te lo aspetti e rendono il piano preventivamente stabilito dissonante rispetto alla contingenza. L’attrito, come spiega meticolosamente von Clausewitz, è quella resistenza che ci viene dalle circostanze quando proiettiamo sul mondo la nostra azione pianificata.

Se si riflette sulla strategia, prosegue von Clausewitz, ci si rende conto che più si sale nella gerarchia militare, dalla tattica alla strategia, meno la modellizzazione funziona. Al livello più elementare, alzare o abbassare un fucile, il gesto è modellizzabile e, di conseguenza, diviene meccanico. Chi mai può dimenticare l’incipit di “A few good man” (Codice d’onore) di Rob Reiner dove sui titoli di testa scorre la geometria dei coreutici rituali militari del Corpo dei Marines? Un minuto e quaranta secondi da antologia del cinema: un sincronismo di movimenti, esecuzioni marziali all’unisono, passi magnificamente a tempo, una danza perfetta di fucili da far invidia al Bol'šoj Ballet. Ma più si sale di grado, meno la cosa è possibile.

E dunque cosa viene chiesto al generale se non, paradossalmente potremmo dire, il colpo di genio? Questo significa strapparsi di dosso e senza indugio gli abiti da geometra faticosamente cuciti nel corso del tempo, accantonare squadre e compassi, lasciare da parte tutte le modellizzazioni, i piani redatti a tavolino dallo Stato Maggiore e reagire in presa diretta a quanto accade nella situazione concreta. Una rottura rispetto alla razionalità, abbandono dell’azione concertata, affidamento all’ispirazione e all’improvvisazione. Ricorda per certi versi la personale estetica del genio di Mario Monicelli contenuta nell’intramontabile Amici miei, dove per bocca del Necchi durante una perfida zinzarata lo spiega così ai danni di un bimbino accovacciato sul vasetto da notte nell’eroico sforzo dell’eiezione: “È fantasia, intuizione, decisione e velocità di esecuzione”.

L’adattabilità – come appunto afferma Liddell Hart – è la legge che governa la sopravvivenza in guerra come nella vita, poiché la guerra non è altro che una forma concentrata dell’eterna lotta tra l’uomo e l’ambiente [L’arte delle guerra nel XX secolo].

di Cristhian Re

 

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