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Napoleoni in azienda

Dazebao Cristhian Re

Non è un caso che tutte le competizioni umane, dal calcio alla politica, si esprimano con un vocabolario tecnico caratteristico delle azioni belliche: “le squadre si schierano”, “le punte attaccano”, “si scende in campo”, “l’agone politico”, “l’imboscata parlamentare”, “i franchi tiratori” e così via: tutte attività che, si presume, siano comprese entro una cosiddetta “strategia”.

La strategia, letteralmente, è la capacità di condurre (in greco antico “ago”) l’esercito (“stratos”) in guerra. “Strategos”, lo stratega, è quindi il “condottiero d’esercito” o “generale”. Un termine partorito, in tutta evidenza, in ambito militare, e forse – parere dello scrivente – sarebbe stato meglio se non avesse mai valicato quei confini. Avrebbe generato meno confusione in chi soldato non è o, addirittura, si vanta di non esserlo. L’etimo è sin troppo chiaro: se non si è condottiero di esercito (cioè generale) non si è stratega. Da un punto di vista strettamente semantico, non si ha titolo per fare della strategia. La strategia è cosa di generali. Generale è, come noto, il grado apicale della carriera militare da ufficiale. Essere colonnello, ad esempio, non basta. Non a caso B. H. Liddell Hart definiva la strategia la “arte del generale”. Sì, di quel generale che si spera abbia combattuto almeno una guerra, integrerebbe oggi lo stesso autore se fosse ancora vivo. Il generale, in tale accezione, anche dall’alto della sua collina, ben conosce la polvere, il sangue e le grida che si levano da un campo di battaglia, perché in quel campo si è dovuto guadagnare i suoi gradi distinguendosi per valore e coraggio. E se un ufficiale riesce a sopravvivere fino al grado di generale, significa che è stato anche fortunato, oltreché valoroso.

Se penso alla storia (militare) strateghi sono stati: Epaminonda, Alessandro, Annibale, Scipione, Cesare, Belisario, Cromwell, Marlborough, Federico, Napoleone, Moltke, etc. Pertanto quando pronunciamo la parola strategia un brivido dovrebbe correre lungo la nostra schiena, una vertigine assalirci, un macigno schiacciarci. Siamo chiamati a misurarci con questi giganti. Sconti la storia non ne fa.

Dopo i due conflitti bellici mondiali, la diffusione dell’alfabetizzazione di massa, lo sviluppo dei mezzi di comunicazione e la scoperta del pensiero militare orientale, che considero vera propria filosofia della guerra come “L’arte della guerra” di Sun Tzu, di Wuzi, di Sun Bin, “I 36 stratagemmi”, eccetera, il concetto di strategia è diventato di dominio pubblico e utilizzato quasi in ogni ambito della vita. Chiunque, oggi, parla disinvoltamente di strategia o, peggio ancora, di strategie (al plurale! Sfacciato e impunito abuso): politici, medici, managers, giornalisti, psicologi, baristi, la casalinga di Voghera e il macellaio di Tradate. Tutti, insomma. I militari, come è ovvio attendersi, inorridiscono, senza però farlo tralucere.

Ammetto che il tema, più di altri, ha un fascino quasi irresistibile. Già dopo l’acquisizione dei primi rudimenti ci si sente grandi strateghi, emuli del gen. Guderian sui campi di Sedan (1940): colpire i punti deboli, puntare alla rottura dell’equilibrio psicologico e fisico, muovere indirettamente contro il nemico, favorire movimento e sorpresa, seguire la linea di minor resistenza fuggendo la linea di probabilità naturale, stare in guardia mentre si colpisce, non limitarsi a un solo obiettivo e adattarsi.

La strategia, insomma, è una meravigliosa fiera delle banalità; ma quanto è difficile essere efficacemente banali!

Viene naturale, proprio per l’immediatezza di tale distillato di millenaria arte militare, farne uso persino nelle relazioni interpersonali quotidiane per avere la meglio sull’interlocutore (il marito, il cliente, il collega di lavoro, etc.). In quei contesti, invece, caratterizzati da elevata conflittualità (il vicino di casa, l’automobilista irrispettoso del Codice della Strada, il proprio capo, etc.) il pensiero va direttamente alla neutralizzazione dell’avversario.

È una materia, quella della strategia, da maneggiare con estrema cura e di cui servirsi con parsimonia. Il delirio di onnipotenza rischia di invadere e obnubilare la mente anche del più cauto degli appassionati, facendo scattare istintivamente la “molla dell’applicazione automatica” nei più svariati campi, il desiderio quasi irrefrenabile, cioè, di applicare tali capisaldi ovunque e alla bisogna.

Il professionista della sicurezza, anche quando ha illustri trascorsi militari, partecipa a quella che possiamo definire “strategia aziendale”, intervenendo nell’individuazione di quelli che sono i punti deboli dell’Organizzazione. Il suo ruolo è solo quello di orientare e influenzare il Decisore nelle scelte che prenderà limitatamente al settore di sua pertinenza (la sicurezza, appunto), sempre che quanto suggerito non confligga con altre esigenze connotate da una maggiore priorità o urgenza. Lui è un tattico, non lo “stratega”, con necessarie doti manageriali, che, anche quando non ascoltato, si prende comunque cura dei beni e delle persone dell’azienda cercando di far adottare quelle contromisure capaci di ridurre l’esposizione al rischio o le conseguenze dannose a seguito di eventi imprevisti.

L’uomo della sicurezza, come tutti coloro che hanno responsabilità tattiche, deve svolgere i suoi compiti senza registrare frustrazioni laddove le sue indicazioni non siano accolte. L’alternativa è farsi imprenditore. In quelle vesti si circonderà, a sua volta, di validi professionisti in grado di consigliarlo nei vari ambiti (economico-finanziario, produttivo, gestionale, etc.) di cui si compone e in cui si sostanzia una decisione strategica. Ma parliamo di un’azienda con un fatturato (di almeno svariati milioni di euro) e un livello dimensionale di una certa rilevanza; le imprese individuali, le micro (al di sotto dei 10 dipendenti) e le piccole (fino a 49) sono da ritenersi escluse. La “strategia” di una di esse non influisce sulle sorti del Sistema Paese anche alla luce del tessuto delle aziende italiane composto, come si sa, per il 99,4% da aziende micro-piccole che rilevano in quanto massa critica, ma a struttura decisionale pulviscolare.

Fino a qui gli “strateghi” o gli aspiranti tali. Vi è poi una tipologia umana assai perniciosa che scimmiotta la prima, improvvisandosi o, peggio ancora, ritenendosi una sorta di generale in forza del potere che temporaneamente esercita. La strategicità di un’azione, ancorché diretta contro un avversario o presunto tale, è determinata dalla lungimiranza con cui viene presa. Gli artiglieri hanno sempre presente, e le loro procedure ne tengono conto, che del cannone bisogna considerare la gittata e tutti gli altri fattori proiettivi oltre alla seppur rara possibilità che sia la culatta ad esplodere loro in faccia!

In sostanza lo “stratega” muove secondo i suoi disegni con una pluralità di scopi, i tattici svolgono con prudenza le funzioni loro affidate senza la pretesa di avere una valenza più ampia per non transitare nella nutrita e pericolosissima categoria professionale dei “caciottari”, quella testé descritta.

Cuique suum, ovvero, a ciascuno il suo.

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