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Paradossi

Cristhian Re Security Manager e membro C.S. S News

Mercato della sicurezza privata in Italia e all’estero

Perché ci ostiniamo a nuotare in una vasca di 4,3 miliardi di euro quando invece potremmo tuffarci in un oceano di oltre 200 miliardi di dollari? Tanto pare ammonti il volume di affari globale annuo della sicurezza all’estero. L’equivalente di circa dieci manovre finanziarie di un Paese come l’Italia.

Briciole, il settore della sicurezza privata in Italia: circa 1.500 imprese (oltre 110.000 occupati) si contendono i magri ricavi di un comparto ormai ancillare. Più esattamente, le circa 60 grandi imprese del settore producono oltre il 75% del fatturato dell’intero comparto lasciando alle restanti 1.440 la polvere di quelle briciole. Logica da Arti e Corporazioni, dove a spiccare è l’elemento geografico, come al tempo dei Comuni. Un mercato domestico che potremmo definire asfittico.

Eppure, se solo avessimo l’audacia di lanciare lo sguardo al di là delle Alpi e del Mare Nostrum, scorgeremmo multinazionali italiane presenti in oltre 170 Paesi con circa 25.500 controllate, oltre 1,7 milioni di addetti e 550 miliardi di fatturato. Dunque, un enorme patrimonio collocato fuori dei confini della stretta Penisola.

Duty of care ovvero il dovere di protezione

Tali imprese operanti all’estero, in Stati e in regioni anche a rischio, hanno il dovere e la responsabilità di proteggere il proprio personale. Si tratta di quello che viene definito come «dovere di protezione» o «duty of care», riconosciuto dalla giurisprudenza e dal Codice penale, che trova la sua applicazione sia sul suol patrio sia all’estero, nei confronti dei soggetti espatriati, di quelli impiegati in missioni e delle persone eventualmente a loro carico. Esso include sia i rischi endogeni all’ambiente lavorativo sia quelli esogeni tra i quali i cosiddetti «rischi di security». In molti scenari esteri, dove il livello di sicurezza fornito dagli apparati governativi e dalle forze di polizia locali risulta basso o insufficiente, con casi frequenti di corruzione, complicità e connivenza con organizzazioni criminali, il ricorso alle PMSCs (Private Military Security Companies) è la regola in quanto scelta obbligata.

I 12 Paradossi

Torniamo per un attimo al “Cortilem Nostrum” cui tanto siamo affezionati, la zona di comfort per taluni.

Sappiamo che solo uno sparuto gruppo di imprese in Italia è dotato della figura del Security Manager (paradossalmente la legge lo impone ai soli Istituti di vigilanza che, ancor più paradossalmente, sono in numero maggiore rispetto alle imprese sopradette) e che quei pochi ruoli disponibili sono appannaggio, quasi esclusivo, di fior di rappresentanti delle Forze di Polizia e delle Forze Armate; sappiamo che, a fronte di quei pochi privilegiati cooptati,  già al servizio delle Istituzioni, abbiamo un esercito di aspiranti tali che, non vincitori di pubblici concorsi, si riversano su un mercato che evidentemente non è in grado di assorbirne il numero; sappiamo che Scuole e Atenei hanno istituito addirittura corsi di laurea e post lauream in sicurezza; sappiamo che gli Organismi di Certificazione continuano a certificare professionisti in tale ambito, nonostante la scarsità di posti di lavoro nel settore; sappiamo che le società che erogano servizi di sicurezza privata amano le sole attività c.d. “core” che fa il paio con l’altra inestirpabile convinzione nelle aziende che tutto si riduca alla cagnesca vigilanza ai cancelli o, nella migliore delle ipotesi, all’installazione di quattro telecamere e due tornelli; sappiamo inoltre che Legislatore e Normatore, soprattutto in Italia, non ragionano in termini di sicurezza integrata, ma frammentata (PSNC, NIS2, DDL Cyber Sicurezza, Critical Entities Resilience, DORA, Business Conituity, Privacy, ecc. ecc.); sappiamo, infine, che dal lontano 2018 giace su qualche tavolo o in fondo a qualche cassetto del Parlamento una proposta di legge che apre a quell’immenso mercato di oltre 200 miliardi di dollari.

Opportunità e limiti

E allora, se sappiamo tutto, questo perché continuiamo a lasciare questa opportunità ad aziende statunitensi, britanniche, francesi, israeliane, sudafricane, ecc.? Le ragioni sono da ricercare, forse, nel nostro nanismo in campo geopolitico o nella nostra miopia in quello geoeconomico o nella nostra ipoacusia nella capacità di ascolto delle istanze provenienti dal mondo dell’imprenditoria. Nei Paesi sopra menzionati tra i Palazzi del Potere si aggirano esperti e ben accolti lobbisti capaci di esprimere le istanze dei gruppi di interesse e di stimolare l’attività del Legislatore. Nei nostri, invece, singoli postulanti, portavoce di una contrada, che agiscono in ordine sparso, perseguitati da norme che nel loro complesso tendono a criminalizzare queste attività, altrove legittime e salutari anche per il contrasto alla corruzione. Tant’è vero che c’è un agguerrito schieramento di norme incrociate che rendono impossibile anche solo affrontare la questione in ragione di un complessivo atteggiamento etico e culturale proveniente dalla nostra storia (anche di Paese cattolico) e dalla scarsa proiezione all’estero di nostre attività a rischio.

Posizioni divergenti ovvero il 13˚ paradosso

A tutto questo bisogna aggiungere l’atteggiamento di sufficienza misto a indifferenza manifestato dai Security Managers italiani nei confronti della questione. Una sorta di contrappasso per contrasto: se da un lato abbiamo le società dei servizi di sicurezza privata che puntano quasi esclusivamente alle attività che ritengono di saper fare meglio e sulle quali concentrano la maggior parte delle proprie risorse, la vigilanza appunto, dall’altra abbiamo i managers della Security in azienda che malcelano un certo fastidio nel sentirne parlare. La vigilanza richiama, infatti, quelle umili origini della professione (la sicurezza fisica) da cui vogliono prendere le distanze, bollata come “roba dell’altro secolo disciplinata da Regi Decreti!”. Il concetto di Security che coltivano e cullano, ancorché ispirato alla farraginosa e caotica normativa partorita negli ultimi 15 anni, è quello di una managerialità solida e rotonda, non certamente di capo delle guardie o degli elettricisti. Un’idea di sé scollata dalla percezione che, invece, si ha in azienda. È un po’ come insistere nel voler indossare una talare cardinalizia anziché un più appropriato saio. Insomma, differenti posizioni destinate a non incontrarsi.

Sogni infranti

Torniamo alle potenziali opportunità di bussiness all’estero. Non ci mancano certo intraprendenza, risorse economiche, capacità imprenditoriali, competenze tecniche, donne e uomini disposti a partire subito sacco in spalla per una retribuzione sicuramente più soddisfacente. Ma sì, in fondo che male c’è a guadagnarsi il pane fuori del Bel Paese, in qualche landa desola a presidiare gasdotti e oleodotti interrati o a bordo di qualche blindo a scortare VIP! Pecunia non olet. Ops, mi stavo dimenticando che la proposta di legge, come suggerisce la parola stessa, dopo sette lunghi anni è ancora solo una proposta, non legge. Bisognerebbe non solo trasformare detta proposta in legge ma, contestualmente, intervenire su una serie di altri ambiti, da quelli di ordine storico-culturale a quelli di carattere etico-religioso.

In molti può insorgere, infatti, la forte tentazione di cercare proprio quegli spazi che da noi sono interdetti, ma pare che, di questi tempi, preparare uno zaino costituisca reato.

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