Quale minaccia rappresenta l’IS per l’Italia e per l’Europa?
A chi capita di doversi recare oggi all’estero può accadere di essere apostrofato: “ti vedremo con una tuta arancione”? È la testimonianza plastica di come i militanti dello Stato Islamico (IS) siano riusciti a catturare l’immaginario collettivo – in breve tempo e abilmente – e imporre la loro propaganda, narrazione raffinata e curata, anche ad attori razionali e ai decisori.
In che maniera ci rapportiamo a questa organizzazione e stabiliamo l’ordine delle nostre priorità?
Lo facciamo in maniera ponderata, con un esame attento dei fattori in campo e dei nostri interessi?
Un breve appunto sulla forza e i limiti del novello “Califfo” islamico e sulla sua capacità di radicarsi nel Medio e nel Vicino Oriente e in ultimo in Libia può fornirci uno spunto di riflessione riguardo la minaccia all’Italia e all’Europa che esso rappresenta o potrà rappresentare.
L’impatto della comunicazione del Califfato pare dato dalla sua capacità di entrare a viva forza nei meccanismi veloci dell’informazione contemporanea, costretta a seguire il flusso incalzante degli eventi e perciò in ultimo incapace di soffermarsi sugli aspetti sostanziali, dopo averne colto i contorni. La scelta di azioni disumane e barbare anche agli occhi di sensibilità diverse è in quest’ottica vincente, perché tocca la sfera emotiva e quindi sollecita una reazione ancor meno attenta agli antefatti e allo scenario. Ciò agevola il più immediato raggiungimento della primissima pagina di quotidiani e siti di informazione, quindi l’imporsi nell’agenda internazionale.
La comunicazione curata e il chiaro lavoro di post-produzione servono poi gli interessi e la funzione asimmetrica propria della comunicazione dell’IS, ovvero contribuire al reclutamento e all’indottrinamento di nuovi adepti, in particolare quelli che si avvicinano al Califfato su base individuale e volontaristica. Non solo quindi immagini efferate, ma documenti con dati, grafici e notizie atte a ribaltare la narrazione negativa di marca soprattutto occidentale – talora fatta passare attraverso le testimonianze smitizzanti dei reduci.
L’IS si racconta invece ai propri adepti e alla vasta platea dei destinatari del suo messaggio come realtà statuale effettiva, che reagisce con efficacia ai governanti-fantoccio, alla povertà, alle disuguaglianze e all’ingiustizia non meno che all’apostasia e alla miscredenza.
Tale messaggio è poi accompagnato con elementi ulteriori collegati ai contesti locali di chi produce i singoli documenti, gruppi aggregati che promuovono richiami talora contrastanti (è l’esempio del video dei 21 copti egiziani giustiziati in Libia, con richiami ad Al Qaida), ma tollerati perché amplificano anziché ridurre la forza originaria del messaggio IS, in nuce identico a quello del jihadismo: è possibile cambiare se stessi e il mondo attraverso l’azione. L’idea origina da una strumentalizzazione dei testi sacri, propria del wahabismo e da questi propugnata, che giustifica le azioni violente e la vendetta contro gli infedeli, dissociati dalla Umma musulmana. Si tratta di un'interpretazione preesistente avanzata dalla Salafiyya – la scuola dei “Pii antenati”, modello di virtù religiosa – da ritenere minoritaria nell’Africa del nord e in particolare in Libia.
Qui sono radicate letture sufi fondate sulla pietas e la bontà dell’uomo di Dio e del religioso, che hanno tuttavia in ultimo subito l’ascesa delle nuove correnti veicolate dai petrodollari, pur esse stesse frazionate in letture variamente conservative. Si identificano qui i limiti del Califfato riguardo al mondo arabo e islamico, laddove esso deve far breccia in gruppi sociali che mal tollerano il settarismo e il cieco ampliare la religione anche a sfere assai intime dell’uomo; tuttavia quel messaggio è al contempo straordinariamente moderno e perciò capace di fare presa, nella misura in cui offre in specie a giovani urbanizzati e disorientati nuovi strumenti per la costruzione della propria identità, attraverso un jihad personale teso a “resistere alle tentazioni”, seguito dall’azione contro i “nemici dell’Islam”, i “falsi islamici” e i “nemici della Umma”.
A questa seconda tappa della radicalizzazione giunge una minoranza nella minoranza, coloro che costruitisi come “nuovi musulmani” ritengono inadeguato lo Stato e le sue strutture e intollerabili le deviazioni. Non si tratta di raffrontare i modelli della democrazia e della legge coranica (Shari’a) per stabilire il grado di coesistenza possibile; quest’ultima è fonte di diritto pubblico e civile in Paesi dall’ordinamento statale e dalla vita familiare tra loro assai diversi, dunque all’osservazione per categorie ne sorgono posizioni disparate ma non inconciliabili.
In Libia le contraddizioni sono certo rese più inestricabili dalla mancanza di un testo costituzionale di riferimento, che possa fissare il rango delle fonti, i meccanismi della rappresentazione e l’equilibrio dei poteri con riferimento a strutture tradizionali o a esperienze “occidentali”.
Deve semmai isolarsi la disposizione in taluni gruppi a commettere atti di violenza e a morire in nome di testi sacri, divenuta oggi accettabile per molti più dell’idea del sacrificio per amor di patria o nazionale, in passato potenti fattori di mobilitazione anche nei Paesi arabo-musulmani. Per questi combattenti, le sole parole “democrazia” o “società civile” risultano elementi di debolezza, che rendono dunque impossibile qualunque interazione con chi la auspica: frizioni a livello persino individuale si tramutano così in azioni collettive.
Da non sottovalutare è inoltre l’assenza del processo socio-economico che precede e determina la democrazia, ovvero la differenziazione della struttura produttiva e sociale e la nascita di una borghesia: elementi che latitano in molti dei Paesi dell’area arabo-islamica ma in via di indebolimento anche nelle “culle” dell’anti-dispotismo.
L’arruolamento – di frange invero minoritarie – avviene generalmente su un substrato di condizioni materiali di bisogno, o comunque di isolamento, che tendono ad agire sull’individuo e a legittimare la violenza, con ciò determinando opportunità per estremisti e reclutatori di singoli o piccoli gruppi.
Si tratta di condizioni replicabili e replicate nelle periferie delle grandi aree urbane occidentali, dove il discorso radicale risuona tra i giovani, anche non praticanti.
Il risentimento e l’esclusione diventano fattore di radicalizzazione e mobilitazione e sebbene sia impossibile isolare con certezza dei fattori aggregati validi per ciascuno dei circa trentamila miliziani oggi censiti nelle fila dell’IS, una miscela in parti variabili di protezione, dignità e uno stipendio possono bastare allo scopo prefisso. Sirte, città d’origine del Rais libico, è stata volutamente negletta nel dopo-Rivoluzione, così come mai sanata è rimasta la sensazione di disparità che regnava in Bengasi e in Cirenaica, motivo di innesco già delle prime rivolte del 2011 e che vi ha poi favorito il radicamento in sequenza del proselitismo salafita, di Ansar Al Shari’a, infine dello Stato Islamico a partire dal bastione indomito di Derna.
Un simile percorso appare risultare attraente anche per i foreign fighters in Europa e altrove nel mondo, sebbene anche qui gli elementi descritti non conducano a comprendere in maniera univoca la causa scatenante per il singolo attivista.
Esistenze segnate dalla marginalità e dalla mancata integrazione possono venire a contatto con elementi radicali nelle proprie cerchie o nelle carceri, per poi cimentarsi nel percorso addestrativo e di combattimento; in Italia questi elementi hanno avuto sinora una importanza marginale, avendo coloro che lo hanno intrapreso (alcune decine) aderito a queste idee secondo parabole proprie.
Se ne può generalmente desumere che quei percorsi si sono completati al di fuori delle moschee dove i radicali trovano poco seguito, mentre le reti virtuali sono state piattaforma primaria per la diffusione del proselitismo e la facilitazione dei contatti con coloro che organizzano il viaggio e l’accoglienza a destinazione. L’insieme di questi elementi e l’osservazione delle dinamiche in atto depone, al momento, per l’esclusione del cosiddetto jihadismo “di ritorno” dal novero dei più rilevanti problemi di sicurezza da mitigare in Europa e più specifi catamente in Italia; seppure non inconsistente, questa fattispecie sembra dover colpire in misura maggiore i Paesi dell’Africa del nord che non quelli della sponda europea.
Il jihadismo endogeno frutto di processi di auto-radicalizzazione si è invece già rivelato letale, perché gli attori solitari sono di più diffi cile individuazione, né operano o comunicano come parte di una struttura la cui attività possa essere facilmente monitorata.
Gli articoli di legge che puniscono i reati di terrorismo tendono inoltre a risultare poco efficaci nella fase del proselitismo e della adesione a reti radicali; le asprezze del dibattito politico e la tendenza a piegare questioni di sicurezza a fini di consenso elettorale non depongono infine per una discussione franca ed efficace sulle minacce e sulle contromisure più efficaci da adottare.
Ridimensionata ad ogni modo l’idea che dalla Libia possano partire attacchi missilistici diretti in Europa o in Italia (gli Scud lì in circolazione hanno gittata insufficiente, sono in stato di conservazione precario, hanno bisogno di personale qualificato per il loro impiego e di elementi di lancio visibili agli intercettori), o quella che dal suolo libico possa partire, celato tra i migranti, personale addestrato a compiere attacchi su suolo europeo – che dovrebbe affrontare un lungo e periglioso viaggio dall’esito incerto; più comune ed economico è fare ricorso a collaudate rotte aeree con scalo a Istanbul e Tunisi – più concreta appare l’opportunità data all’IS di destabilizzare la transizione dello Stato libico e ottenervi lo scopo di alimentare il terrore nel mondo arabo e occidentale, nonostante le forti differenze in termini di radicamento geografico e di militanti.
Di qui, sorge la necessità per i decisori di monitorare gli arrivi e le comunità inclini a ospitare al proprio interno elementi avvicinabili da idee estremiste; in Libia, di evitare che gli agitatori portino a segno ulteriori atti anche con la cooptazione di altri jihadisti o violenti locali, prima di un collasso defi nitivo che avrebbe un riverbero diretto sugli interessi in Libia e qui inevitabilmente.
di Umberto Saccone, Amministratore Unico GRADE Srl già Senior Vice President Security Eni