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La dimensione dello scarto

Cristhian Re Security Manager Il Dazebao della Security

“La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo”
[Marco 12, 10]

In etimo veritas

L’etimo svela talvolta le radici più profonde di un termine di cui ci restituisce il significato più autentico indicandone, in pari tempo, l’evoluzione semantica subita nel corso dei secoli.
Scarto deriva dal latino excerpere: estrarre, staccare, raccogliere e, in senso figurato, scegliere, separare. Relativamente agli scritti: compendiare, epitomare, fare degli estratti e, ancora figurativamente, escludere, allontanare, cancellare, omettere, scartare. Ma anche sottrarre, togliere e, riflessivamente, sottrarsi. Un ventaglio amplissimo di accezioni che abbraccia tutto e il suo contrario, conservatosi nel tempo e ulteriormente estesosi anche ad altri campi dello scibile umano, tant’è che, a udire “scarto”, la mente spazia dalla matematica all’equitazione, dalle carte da gioco alla nautica, dall’economia alla balistica, dal calcio alla statistica, dai trasporti all’enigmistica, ecc.
Dunque, a quale scarto ci riferiamo?
Optiamo evidentemente per il significato offertoci proprio dal participio passato del verbo latino excerpere: “excarptus”, ciò che si separa dal resto delle cose perché inutile o che si rigetta dopo aver scelto il meglio. Ecco il nostro scarto.
Lo scarto, così inteso, è divenuto un dato tangibile della nostra quotidianità. Ci accompagna costantemente. Possiamo affermare che viviamo scartando cose. Uno scarto al quadrato: prima le scartiamo, cioè le estraiamo o le liberiamo dall’involucro di carta che le circonda, come si fa con le caramelle, e poi torniamo a scartarle, eliminandole o espungendole perché inutili oppure perché, semplicemente, non ci servono più.
Spesso sotto la spinta delle mode o di uzzoli, ci circondiamo e viviamo immersi in cose che non ci servono a molto. Hanno fatto il loro tempo, si dice. Lo stesso, talvolta, accade anche con le persone quando riteniamo che abbiano “fatto il loro tempo” o siano scivolate nella quiescenza.

Cicli, ricicli e… riciclaggi

Fin dall’antichità lo scarto (di risorse e prodotti) viene reimpiegato, riciclato, reimmettendolo come elemento in un ciclo, un processo circolare. Lo scarto torna ad essere materia prima accettando, un tempo inconsapevolmente, che il Secondo Principio della Termodinamica ne riducesse la quantità. E così gli antichi templi fornirono materiale per l’abbellimento delle dimore aristocratiche e con le statue di bronzo si fusero cannoni. Nello stesso passato non si poneva il problema degli scarti di “rango inferiore”, in quanto ogni oggetto era utilizzato sino all’ultima possibilità di impiego.
Oggi lo “scarto” è entrato tutto di peso nella catena del valore, tanto nelle sue attività primarie quanto in quelle di supporto. In un processo economico virtuoso non si getta nulla senza esame.
E così assistiamo:

  1. al riciclaggio del lavoratore. Il problema si pone per coloro che sono espulsi dai circuiti produttivi per effetto delle nuove tecnologie e a coloro che nel pieno della vitalità si sottraggono al mercato del lavoro per raggiunti limiti di età. Nel primo caso emergerà la necessità di nuova formazione; nel secondo si tratterà di ricercare le forme più adeguate per non disperdere quello che è un patrimonio di esperienza che ha costituito un costo sia per la società sia per le aziende nelle quali si è evoluto.
  2. al riciclaggio di rifiuti, per cui un prodotto, alla fine della propria vita utile, viene reimpiegato con altre finalità o vede il materiale di cui è composto ritrasformato in altri prodotti (es.: vetro, carta, plastica, materiale ferroso ecc.); 
  3. al riciclaggio di denaro sporco, un’immensa ricchezza liquida di illecita provenienza alla ricerca di una collocazione fruttifera, attraverso una accurata pulizia e occultamento delle tracce così da poterlo investire in attività lecite. Si stima che ogni giorno nel mondo vengano riciclati un volume di denaro compreso tra il 2% e il 5% del PIL, un valore che si aggira intorno ai 2 trilioni di dollari.

Con particolare riferimento ai punti ii) e iii), il Legislatore ha investito l’Azienda di oneri riguardanti il controllo scrupoloso di tutte quelle attività inerenti al riciclaggio di denaro e a tutta una serie di reati ambientali. Questo richiede di affinare i processi di controllo in quanto il Legislatore medesimo ha esteso il criterio di responsabilità penale personale anche alla persona giuridica, imponendole un modello organizzativo esimente. Il dato perfettamente compreso dal sistema bancario e dalle grandi imprese sembra essere accolto con spunti di superficialità da parte della piccola e media impresa, quasi a esorcizzare gli enormi rischi per la stessa continuità produttiva.
Riciclo e riciclaggio sono diventati quasi sinonimi. La prima parola è anteriore, seppur di poco, alla seconda. Le primissime attestazioni di riciclo risalgono alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, mentre quelle di riciclaggio sono posteriori. Il primo termine indica solo operazione di riciclare, cioè una nuova utilizzazione di materiali di scarto o rifiuto e trattamento di depurazione dell’aria o dell’acqua. Il secondo ha una semantica più complessa arrivando ad assumere, per estensione, il significato di reato consistente nell’impiego di beni e denaro di provenienza delittuosa e, quindi, totalmente privi di ogni utilizzabilità, avendo perso la tutela statuale per quanto riguarda il valore nominale.
In particolare, riciclo viene introdotto per la prima volta all’interno delle norme italiane nel 1961, in un Decreto del Presidente della Repubblica, in cui si trattano i “Processi continui di riciclo” sino alla sua affermazione totale avvenuta in Italia nel 1997 con il Decreto Ronchi: la prima legge quadro italiana sulla regolamentazione del settore rifiuti. Una legge passata alla storia come strategia delle 5 erre (autoesplicative): riduzione, riuso, riciclo, raccolta e recupero, che da allora sono entrate prepotentemente nella vita quotidiana di tutti noi. Essa comportò non solo un radicale cambio di paradigma, ma soprattutto un nuovo atteggiamento mentale e culturale avviando così nel nostro Paese un modello economico, avvertito oramai urgente e necessario, non più ulteriormente procrastinabile. Il ministro Ronchi, in anticipo sui tempi, gettò la pietra d’angolo di quella che oggi viene definita Economica Circolare, che si contrappone con forza alle economie di scala, nate dopo la Seconda Rivoluzione Industriale, e alla cultura dilagante dell’usa e getta, impossessatasi delle nostre abitudini.
L’economia circolare è un modello di produzione che implica condivisione, prestito, riutilizzo, riparazione, ricondizionamento e riciclo dei materiali e prodotti esistenti il più a lungo possibile. In questo modo si estende il ciclo di vita dei prodotti, contribuendo a ridurre i rifiuti al minimo. Una volta che il prodotto ha terminato la sua funzione, i materiali di cui è composto vengono infatti reintrodotti, riutilizzandoli all’interno del ciclo produttivo e generando ulteriore valore. 

Cristhian Re Dazebao Tra scarti e innovazione fig.1

È evidente che i principi dell’economia circolare contrastano con il tradizionale modello economico lineare, fondato invece sul tipico schema “estrarre, produrre, utilizzare e gettare”.

Cristhian Re Dazebao Tra scarti e innovazione fig.2

Il modello economico tradizionale, non più sostenibile, dipende dalla disponibilità di grandi quantità di materiali ed energia facilmente reperibili e a basso prezzo. Oggi, il Parlamento europeo chiede l’adozione di misure anche contro l’obsolescenza programmata dei prodotti, strategia propria del modello economico lineare.
Il riutilizzo e il riciclaggio dei prodotti rallenterebbe il ricorso alle risorse naturali, ridurrebbe le emissioni annuali totali di gas a effetto serra nonché l’alterazione del paesaggio e degli habitat e contribuirebbe a limitare la perdita di biodiversità. Creare prodotti più efficienti e sostenibili fin dall’inizio aiuterebbe a ridurre il consumo di energia e risorse. Si stima, infatti, che oltre l’80% dell’impatto ambientale di un prodotto sia determinato durante la fase di progettazione. Secondo Eurostat, la UE importa circa la metà delle materie prime che consuma.
Il valore totale degli scambi (importazioni + esportazioni) di materie prime tra la UE e il resto del mondo è quasi triplicato dal 2002, con le esportazioni che crescono più rapidamente delle importazioni. Indipendentemente da ciò, la UE importa ancora più di quanto esporta. Pertanto, il riciclaggio delle materie prime mitiga i rischi associati all’approvvigionamento, come la volatilità dei prezzi, la disponibilità e la dipendenza dalle importazioni.
Ciò vale in particolare per le materie prime critiche, necessarie per la produzione di tecnologie cruciali per il raggiungimento degli obiettivi climatici, come batterie e motori elettrici.
Il passaggio definitivo a un’economia più circolare potrebbe generare un aumento della competitività, stimolerebbe innovazione e crescita economica e creerebbe nuovi posti di lavoro (700.000 solo nella UE entro il 2030).
Il termine riciclaggio, invece, compare nel 1978 sempre all’interno di un Decreto del Presidente della Repubblica che disciplina l’ambito alimentare. Impiegato con significato di reato, dal 1990.

Criminalità economica ed economia della criminalità

È proprio la dimensione criminale a rappresentare una seria minaccia all’economia (reale e finanziaria) di un Paese e al suo tessuto industriale.
Il processo di globalizzazione economica ha facilitato lo sviluppo delle organizzazioni criminali che hanno acquisito mezzi sempre più sofisticati e potenti per effetto di tre fattori congiunti:

  1. la completa liberalizzazione dei movimenti di merci e capitali;
  2. la dilatazione delle transazioni finanziarie, accelerate dalla rivoluzione tecnologica delle comunicazioni;
  3. le garanzie offerte dai paradisi fiscali.

Il loro principale obiettivo è l’accumulazione di ricchezza, utilizzata per ottenere posizioni sempre più rilevanti negli ambienti dell’economia e della finanza sino a condizionarne lo sviluppo e determinare l’inquinamento di interi settori della vita pubblica. Tali organizzazioni, approfittando delle disomogeneità legislative esistenti tra i diversi Paesi, operano in settori di illegalità (narcotraffico, contrabbando, armi, immigrazione clandestina, prostituzione, ecc.) che implicano risvolti di natura transnazionale o internazionale. Inoltre, non si limitano alla commissione di reati comuni, ma tendono ad inserirsi stabilmente nel mercato anche mediante l’acquisizione di attività imprenditoriali, non solo quelle in difficoltà o con scarsi margini di redditività. Infatti, l’infiltrazione nel sistema economico lecito (quali il comparto immobiliare, sanitario, ecologico, turistico, commerciale e agro-alimentare, ecc.), attraverso il perfezionamento delle tecniche di riciclaggio, consente di restituire alla luce la gran massa di denaro accumulata. Pertanto, criminalità economico-finanziaria e criminalità organizzata tendono progressivamente a sovrapporsi e, non di rado, a coincidere. Ciò comporta riflessi negativi sull’ordinato funzionamento dei mercati e delle normali regole di comportamento del sistema d’impresa, determinando, altresì, l’inquinamento e la distorsione dei circuiti finanziari e creditizi, l’alterazione dell’andamento dei mercati e delle borse, attraverso il ricorso a strumenti estranei al mondo imprenditoriale legale, incentivando l’economia sommersa e la sottrazione di masse finanziarie al prelievo fiscale. Si perfezionano cartelli, dumping, aggiotaggi, speculazioni, falsi in bilancio, frodi ed evasioni fiscali (attraverso filiali off-shore e società-ombra), corruzioni, ricatti, delazioni, violazioni dei regolamenti in materia di diritto del lavoro e libertà sindacale, di igiene e di sicurezza, di contributi sociali, di inquinamento e rispetto ambientale e così via. Inoltre, la criminalità economica influenza il mercato del lavoro, soprattutto nelle aree soggette a disoccupazione strutturale. L’influenza criminale sulla forza lavoro costituisce uno strumento di controllo del territorio e di pressione sulle imprese legali con il conseguente rafforzamento delle organizzazioni criminali.
È bene anche ricordare che tali attività illegali figurano tra le primarie fonti di finanziamento dei gruppi terroristici. Il terrorismo internazionale, infatti, non solo costituisce una minaccia al libero godimento dei diritti umani, all’ordine democratico e allo sviluppo economico-sociale, ma anche elemento altamente destabilizzante per la sicurezza economica e finanziaria.
Non è semplice porre un freno al riciclaggio del denaro ed agli illeciti e perniciosi arricchimenti che ne conseguono.
Le norme penali e le regolamentazioni debbono agire operando un accorto discrimine tra ciò che è criminalità economica (il complesso dei reati compiuti nell’ambito del sistema economico) e ciò che, invece, è economia della criminalità (la movimentazione di risorse di provenienza illecita nei legali circuiti economici). Le norme dirette a contrastare quest’ultima non debbono incidere, paralizzandolo, l’intero sistema economico.
Un mio antico maestro irrideva i sostenitori di quell’Articolo Unico, gli “Unicisti”, che nella semplicità della sua formulazione si proponeva come reazionaria panacea recitando: “Il cittadino, a richiesta dell’Autorità ed a pena di confisca, deve giustificare la provenienza dei suoi beni”. È innegabile che gli effetti sarebbero decisivi, ma a prezzo della fibrillazione dell’intero sistema economico e dell’intero assetto giuridico del Paese facendo venir meno quel diritto alla riservatezza sulle attività economiche che può essere sospeso, e con atto della giurisdizione, solo in presenza di fatti reato e non per mera attività amministrativa.
Ulteriore fattore di criticità per l’Italia è rappresentato dalla crescente penetrazione economica straniera. Il fenomeno si contraddistingue da infiltrazioni di capitali da parte di investitori esterni ordinariamente all’acquisto di azioni o quote di importanti imprese per assumerne il controllo, ovvero attuato mediante la progressiva localizzazione sul territorio nazionale di filiali di imprese straniere capaci di acquisire larghi settori di mercato con incontrastabili prezzi concorrenziali, generando così distorsioni nella concorrenza e nella competitività.

Dalla cavezza all’acceleratore

E in ambito lavorativo a cosa altro assistiamo di altamente preoccupante? All’alba del Terzo Millennio ci domandiamo come sia possibile che l’uomo sia perennemente in affanno e viva in cronica carenza di tempo, quando grazie alla tecnologia (che lui stesso ha sviluppato) sia riuscito ad aumentare la velocità nelle comunicazioni di 107, la velocità nel trasporto passeggeri di 102 e la velocità nell’elaborazione dei dati di 106.
Le ragioni sono sostanzialmente due:

  1. il tempo è fattore costante;
  2. i tassi di crescita superano i tassi di accelerazione.

Paradossale, ma è così.

Cristhian Re Dazebao Tra scarti e innovazione fig.3

All’accelerazione tecnologica dovrebbe logicamente accompagnarsi un aumento del tempo libero, che a sua volta dovrebbe far rallentare il ritmo della vita o almeno eliminare o alleviare la “carestia” di tempo. Poiché accelerazione tecnologica significa impiegare meno tempo per svolgere un determinato compito, il tempo dovrebbe abbondare. Le risorse di tempo necessarie per il compimento di determinati atti della vita quotidiana, come nel lavoro, diminuiscono drammaticamente, se si ammette che la loro quantità rimane la stessa. Il problema è che non è così: la loro quantità aumenta esponenzialmente. Per questo motivo il tempo scarseggia sempre di più di fronte all’accelerazione tecnologica. Lo vediamo tutti noi ogni giorno, per qualsiasi cosa. Si pensi alle e-mails. Se all’inizio degli Anni ’90 un impiegato tipo riceveva forse dieci lettere (cartacee) al giorno, oggi quello stesso impiegato ne riceve (elettroniche) anche settanta, ma il tempo per evaderle è rimasto sempre lo stesso. Di qui l’alienazione, il “non sentirsi a casa”.
L’accelerazione tecnologica, quindi, porta inevitabilmente a una serie di mutamenti nelle pratiche sociali, nelle strutture di comunicazione e nelle corrispondenti forme di vita e di aggregazione. L’accelerazione dei cambiamenti sociali implica una “contrazione del presente” che conseguentemente determina un’accelerazione del ritmo di vita. Un diabolico circolo vizioso, una spirale perversa che ingenera frustrazione, impotenza, stress, depressione e burn-out. Un fenomeno contro cui combattere, che produce anzitempo scarti-lavoratori e fa sentire questi ultimi (i lavoratori) effettivamente tali (cioè, scarti).

Cristhian Re Dazebao Tra scarti e innovazione fig.4

Da abbandono a scelta meditata

E rieccoci allo scarto. Sembra necessario completare il processo di archiviazione del Novecento. Nel Terzo Millennio entrano individui antropologicamente mutati. I lavoratori, che all’inizio del secolo passato lottavano per garantirsi il minimo vitale, ora competono con le “aristocrazie” nell’esibire i nuovi dilatati bisogni. Un tempo si marcava la differenza di qualità del lavoro: c’era la supremazia delle attività di concetto e la mera subordinazione delle attività manuali o ripetitive. Oggi quasi tutto è legato, pur con una certa gradualità, all’apporto intellettuale del lavoratore: dall’impiego delle macchine intelligenti alla progettazione delle medesime e tutti, indistintamente, sono spinti verso un tenore di vita che agli inizi del secolo passato era nelle prospettive di pochi. È mutato il contesto, è mutato il lavoratore, è mutata la sua necessità di essere produttivo. L’esigenza è quella di armonizzare le rinnovate necessità, sia delle persone sia del sistema produttivo.
Quando comparve la macchina a vapore, i suoi primi effetti generarono allarme diffuso come se la macchina dovesse sostituire irrimediabilmente l’uomo. La stagione del luddismo fu tempo di guerra contro la tecnologia, ritenuta responsabile di affamare l’umanità. C’era un evidente errore di prospettiva, il lavoratore stentava a strapparsi di dosso le pelli di bestia da soma, non ritenendo di poter investire qualità diverse dalla forza fisica. La tecnologia ha fatto evaporare quei timori, ma ne ha prodotti altri. Si tratta di affrontarli con spirito diverso da quello di chi ci ha preceduto.
Un magnate dell’inizio del secolo passato avrebbe provato invidia per la qualità della vita di un qualunque lavoratore dei tempi nostri. I re e gli imperatori condividevano con i sudditi più umili l’ambascia e le sofferenze di quel mal di denti che noi estinguiamo oggi con una sola pasticca, spesso inconsapevoli di essere pure titolari di una quota parte di quella sovranità di cui loro, i sovrani, erano ammantati. Le rivendicazioni sono sane, legittime e da sostenere, ma non dovrebbero negare il dato.
È bene a questo punto richiamare l’antica influenza dell’economia domestica, quella più vivamente cogente e percepibile da chicchessia. Essa si fonda sulla consapevolezza dei bisogni, sul valore dell’appartenenza, sull’affettività verso le persone, le cose e la casa comune in un virtuoso circuito caratterizzato da orgoglio, dedizione e impegno. Il pianeta, come la stessa azienda, è la casa comune da cui traiamo il sostentamento nostro e delle nostre famiglie e l’appartenenza all’uno o all’altra meritano lo stesso rispetto che si ha per il proprio casato. Solo quando ogni altra via sarà preclusa saremo legittimati a operare uno scarto; scarto che deve essere atto di volontà e non di pianificazione. In sostanza, lo scarto deve essere preceduto da una attività intellettuale, che per i fini che realizza ha profonda valenza etica e ci pone nella condizione di respirare in armonia con il pianeta, nella speranza che apprezzi la nostra gratitudine.
Lo scarto non deve essere abbandono, ma prodotto di una nostra ben meditata scelta, che sembra esigere l’esplicita dichiarazione formale di chi la compie.

Le Fortezze Bastiani del sapere

Si pensi, ad esempio, a quel che accade con quello che potremmo definire “scarto del sapere”. Mai come negli ultimi anni i saperi sono divenuti fisicamente accessibili a chiunque sappia leggere e scrivere. I libri, un tempo, avevano un costo che ne ostacolava il possesso, obbligando a una severa selezione. Quindi solo le biblioteche potevano saziare i bisogni di conoscenza che fossero insorti e attenuare, seppur momentaneamente, quel bisogno fisico che il libro stesso chiede di esprimere. Uno spazio incolmabile tra desiderio e possesso in quel deserto dei Tartari che premono alle frontiere del sapere.
Oggi i libri sono relativamente a buon mercato rispetto al passato; nei mercatini dell’usato, poi, il sapere ha un prezzo non solo inferiore alla carta su cui è stampato, ma addirittura alla busta (anch’essa riciclata) che lo contiene. L’unico limite è dato dal solo spazio nelle abitazioni destinato ad accogliere i libri, sensibilmente ridottosi rispetto al passato. Il modello di economia circolare offerta dai mercatini dell’usato, un avamposto della cultura, oltre a incarnare un fulgido esempio di “democrazia intellettuale” applicata, ha restituito valore simbolico, principalmente legato all’affettività, a oggetti che lo avevano definitivamente perso, attraverso il formale atto di rinuncia immeditata da parte del proprietario stesso. Di contro, il beneficiario, innalzando l’opera di scarto a feticcio, gli ha assegnato anche un valore economico, non inferiore all’incommensurabilità del ricordo, che tale resterà sino all’estinzione di questi.
Internet, e la dematerializzazione che con sé ha portato, non è sicuramente un’alternativa; tutt’al più un succedaneo (incompleto e imperfetto) dal profilo basso e dall’incerta permanenza.
La rete offre materiale immenso destinato tuttavia solo a chi sa dove cercare, sa ciò che vuol trovare, spesso solo a conferma di una linea di pensiero e dove l’autorità documentale dell’informazione, conclamata nei volumi, si perde in un delirio di proposte: insomma, una trappola. Per i più.
Il grande vantaggio dell’accesso all’informazione globale tende, inoltre, a privarci di quella componente fisica e psicologica che deriva dal possesso, anche solo temporaneo, del libro e della sua intrinseca capacità di trasmettere influssi. Quando lo sguardo scorre, anche occasionalmente, sugli scaffali della nostra libreria, i soli colori di una sovracopertina sono capaci di richiamare contenuti. Siamo, e restiamo, portatori di senso.
In estrema sintesi, quindi, lo scarto, qualunque scarto, deve essere preceduto da un esame dal quale deve scaturire l’atto di decisione; atto responsabile che impone un’assunzione di responsabilità. Nulla si getta a casaccio, tanto meno un libro.

Cristhian Re

Security Manager con oltre venti anni di esperienza maturata nell’industria della difesa, dell’energia, delle multiutilities, della siderurgia e dei semi conduttori. Laureato in Scienze Politiche e in Lettere, Master of Arts in Intelligence and Security. In ambito professionale è certificato CBCI, PFSO, Lead Auditor ISO 9001, 37001, 22301, 27001, 20000-1. Articolista e membro del Business Continuity Institute Italy Chapter, del Comitato Scientifico della rivista S News e del Centro Interistituzionale di Studi e Alta Formazione in materia di Ambiente (CISAFA). Autore de “La misurazione della sicurezza” – (Ed. Bit.Book) e di “Introduzione all’analisi dei rischi” (Ed. Edisef). Ufficiale in congedo dell’Arma dei Carabinieri.

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