Diritto d’autore, diritto all’oblio e nuove policy social network
Diritto d’autore, diritto all’oblio e nuove policy social networks: l’età aurea dei dati volge al termine?
La ricerca ai fini OSINT può essere considerata, almeno metodologicamente, un sottoinsieme della ricerca accademica. Il ciclo di reperimento e verifica delle fonti è infatti essenziale sia per la produzione di un report scientifico, sia per la profilazione di un’entità per conto del cliente finale.
Nell’era dei Big Data (termine usato spesso a sproposito), si tende tuttavia a pensare che le informazioni online siano reperibili sempre e comunque. E anche gratuitamente. La convinzione che “sul web ormai c’è tutto” è diventata un luogo così comune da banalizzare, talvolta, il lavoro dell’analista e del ricercatore. Al contrario, coloro che devono reperire informazioni online sanno bene quanto sia difficile acquisire il singolo dato e quanto possa essere faticoso il cosiddetto lavoro di “collazione” finalizzato alla produzione di una conoscenza strutturata a partire da singoli elementi informativi.
Almeno dall’inizio del 2018 alcuni “ambienti” di ricerca, vale a dire i social networks, sono diventati un terreno sempre più ostico e impenetrabile quando si tratta di acquisire informazioni utili ai fini della ricerca, in particolare nel settore dell’intelligence e dell’analisi sociale. Gli scandali (Cambridge Analytica su tutti) che hanno danneggiato la reputazione dei colossi del networking hanno infatti motivato questi ultimi a “chiudere i rubinetti” dei dati, limitando fortemente il flusso di informazioni che le cosiddette “API” rilasciano agli utenti.
Recentemente anche Twitter, piattaforma storicamente piuttosto aperta nel consentire l’accesso ai dati, ha introdotto alcune limitazioni: a farne le spese sono proprio i ricercatori. Ad esempio, coloro che sono interessati a misurare e monitorare i flussi informativi su determinati argomenti di interesse sociale, riscontrano che la funzione di ricerca avanzata è, spesso, inutilizzabile per risalire ai “primi tweet” relativi ad uno specifico evento. Un caso di scuola (fra gli innumerevoli disponibili) può essere quello del movimento MeToo: la ricerca dell’hashtag “#MeToo” nei tweet pubblicati il 15 ottobre 2017 (la data “di nascita” del noto gruppo femminista), non restituisce alcun risultato, rimanendo tuttavia improbabile che nessun attivista si sia impegnato, proprio quel giorno, a diffondere l’evento sul web.
La ricerca dei dati storici è fondamentale per misurare la diffusione di determinati trends. Anche nel mondo dell’Open Source Intelligence, Twitter può essere una miniera di inestimabile valore, soprattutto quando si tratta di verificare l’attendibilità di una notizia o di risalire alle prime diffusioni online. Tuttavia, mentre fino a pochi mesi fa i ricercatori potevano acquistare, tramite l’intermediazione di alcuni partners dell’azienda, gli archivi storici relativi a determinate “parole chiave”, oggi questa prassi è sempre più difficoltosa nonché costosa. Proprio i costi crescenti sono una delle barriere principali per l’accesso alle informazioni da parte del personale accademico, e le ragioni che stanno spingendo le piattaforme sociali a chiudere i rubinetti sono molteplici. Da un lato etiche, dall’altro commerciali.
La profilazione massiva degli utenti, condotta talvolta in maniera spregiudicata e con finalità politiche, ha scosso fortemente la reputazione dei social, i quali hanno reagito limitando la fruibilità di dati in un’ottica di autotutela. Ma di quali dati si parla? Soprattutto quelli atti a misurare trends politicamente e socialmente sensibili, sempre più oggetto di una sostanziale “tutela rafforzata”. Al contrario, altre categorie di informazioni (in particolare afferenti al comportamento commerciale dei consumatori) sono tutt’ora acquistabili per finalità di marketing. In buona sostanza, i social network hanno intrapreso un percorso inappuntabile in termini di “risk management” finalizzato a salvaguardare al contempo redditività e reputazione, riducendo però il ventaglio di risorse, talvolta di inestimabile valore, di cui disponevano analisti e ricercatori sociali.
Se a tali dinamiche sommiamo inoltre la tendenza giurisprudenziale (prevalentemente italiana) a garantire il “diritto all’oblio” anche per notizie di certo interesse pubblico (nonché relative a fatti recenti), non risulta più così difficile comprendere che l’analisi OSINT, in particolare quella finalizzata a rilevare le cosiddette “criticità reputazionali” è sempre più spesso soggetta a vincoli non dettati da limiti tecnologici, bensì da scelte “politiche” non sempre volte a tutelare il “diritto” del pubblico ad essere informato.
Allo stesso modo, dopo che il GDPR ha già arrecato non pochi danni a coloro che si occupano di cybersecurity, la futura entrata in vigore della nuova regolamentazione europea del diritto d’autore potrebbe comportare altri grattacapi agli analisti OSINT, qualora il debutto della “link tax” portasse davvero alla chiusura di Google News in tutto il Vecchio Continente, come già accaduto, già alcuni anni orsono, in Spagna.
In prospettiva, coloro che sono specializzati in Due Diligence di natura reputazionale, dunque orientate a definire l’integrità morale e/o di compliance di una persona fisica o giuridica, non possono non tener conto della possibilità che determinati contenuti vengano cancellati dal web, deindicizzati o “spinti” in basso nei risultati delle ricerche. In un contesto nel quale le piattaforme socials tendono a ridurre la quantità di dati pubblicamente accessibili, le scelte di policy a livello europeo sembrano volte a tutto fuorché liberare le “energie” del web. Ad oggi, tuttavia, il bilancio non è ancora drammatico: gli esperti della ricerca online sono in grado di reperire informazioni in quantità e a costi piuttosto bassi. Questo, però, non significa che il “trend” imboccato non debba far scattare un segnale d’allarme.
di Lorenzo Romani
Open Source Intelligence Analyst, Unità Integrity Due Diligence di IFI Advisory