Home » News » Attualità

Comunicare sulla sicurezza è trasmettere sicurezza?

Ben-Essere al Lavoro Comunicare sulla sicurezza

La risposta alla domanda “Comunicare sulla sicurezza è trasmettere sicurezza?” è: dipende! Dipende da come viene intesa e sviluppata la comunicazione.

A oggi si parla di comunicazione spesso in maniera impropria: per esempio, spesso i cosiddetti “mezzi di comunicazione” in realtà non creano un reale processo comunicativo.

Comunicare vuol dire “rendere comune”, derivando dal latino munus (“che compie il suo incarico”) e cum (insieme con altri). È la parte del “cum” che spesso viene tralasciata nella comunicazione, dimenticandosi di porre attenzione al processo che si crea quando si condivide un contenuto con qualcuno. Non a caso parlo di “processo”, perché il comunicare non termina una volta data un’informazione o espresso un’idea, ma continua in chi ascolta, generando uno scambio, che può essere verbale o anche all’interno della mente e del cuore di chi partecipa alla comunicazione.

Sappiamo, ma spesso ce ne dimentichiamo, che il comunicare riguarda non solo chi dà l’informazione, ma anche chi la riceve. Esattamente come chi compie l’azione del dire qualcosa, chi ascolta è attivamente coinvolto, non è un ricevente passivo e neutro, ma è una persona o un gruppo che pensa, si emoziona, ha dei bisogni e delle intenzioni.

Comunicare sulla sicurezza

Comunicare sulla sicurezza è un condividere (anche qui torna il prefisso “cum”- dividere) conoscenze, emozioni, bisogni con qualcuno, e non è mai un atto stabilito una volta per tutte, ma un processo che si costruisce insieme.

Partendo da questa premessa, ci si può chiedere: quale intenzione muove il comunicare sulla sicurezza? Le intenzioni delle quali è importante occuparsi non sono gli obiettivi superficiali di un atto comunicativo (per esempio fornire un’informazione), ma sono quelle collegate a pensieri, emozioni, bisogni e che riguardano tutti coloro che sono implicati nel processo comunicativo.

Henri Bergson diceva “La comunicazione avviene quando, oltre al messaggio, passa anche un supplemento di anima”. Le intenzioni profonde sono parte di questo “supplemento di anima” e sono quelle che arrivano agli interlocutori, anche in maniera inconscia. Gli stessi che ricevono il messaggio, lo ricevono attraverso il loro “supplemento di anima”, ovvero le loro intenzioni. Non è ovvio né scontato che le intenzioni dei comunicanti si sintonizzino tra loro. Come fare?

Due orecchie e una bocca

La comunicazione non è solo e non è tanto ciò che si dice, ma è quello che arriva agli altri. E per capire cosa arriva agli altri, è importante ascoltare. Vi siete mai chiesti perché abbiamo due orecchie e una sola bocca? Già… per parlare meno e ascoltare il doppio!

La trasmissione della sicurezza (che può avere diverse sfaccettature, per esempio: diffondere una cultura della sicurezza, sostenere uno stato profondo di sicurezza, creare una rete collaborante di sicurezza, ecc.) è la naturale conseguenza di una buona comunicazione, che a sua volta parte da un ascolto, sia del contesto esterno sia di se stessi.

Conoscere se stessi, ovvero il contesto emotivo, di pensiero e l’intenzione, è la base; d’altra parte il processo non può avvenire senza il consenso e l’apertura alla comunicazione da parte di chi riceve. Una comunicazione unilaterale non è reale comunicazione. In fondo la comunicazione prende il via non solo perché c’è qualcuno che inizia a parlare, ma anche perché c’è qualcuno pronto ad ascoltare quelle parole, in un momento in cui entrambi sono disposti a con-dividere, a “rendere comune” quel “supplemento di anima” fatto da emozioni, bisogni, intenzioni, pensieri. Senza la preparazione di questo terreno, non è possibile far fiorire una trasmissione della sicurezza. Tutt’al più viene calata dall’alto un’idea illusoria di sicurezza, senza scambio e senza creazione di nuovi percorsi insieme.

Ora pensiamo alle comunicazioni sulla sicurezza che oggi avvengono soprattutto tramite canali tecnologici: quanto creano sicurezza o quanto danno l’illusione di trasmettere sicurezza? L’illusione è facilmente smascherabile, perché è testimoniata dall’aggrapparsi delle persone a qualche idea/persona/strumento esterno, in maniera delegante e passiva: non sono davvero al sicuro e sicuro di me, ma dipendo dall’esterno. Questo meccanismo di dipendenza aumenta notevolmente la paura (perché non sono partecipe di quella sicurezza, quindi sono “nudo” di fronte a ciò che accade) e diminuisce la possibilità di creare insieme la sicurezza. Perché la sicurezza è efficace se diventa cultura condivisa, dove ciascuno porta le sue specificità e competenze, ascoltando e facendosi ascoltare, in uno scambio creativo.

La partecipazione della comunità, piccola o grande che sia, alla sicurezza è ciò che di più sicuro si possa creare, così come ci dimostra l’evoluzione dell’essere umano nei millenni: il gruppo, con tutte le orecchie e le bocche dei suoi componenti, è vincente per la sopravvivenza e il gruppo esiste quando si comunica insieme, con la presenza attiva di tutti.

Giulia Cavalli, psicologa psicoterapeuta, psicoanalista e docente all’Università Cattolica di Milano, è curatrice della rubrica Ben-Essere al lavoro, ed è parte del Comitato Scientifico di S News.

Condividi questo articolo su:

Fiere ed eventi

S NewsLetter

Rimani sempre aggiornato sulle ultime novità della sicurezza.

Ho letto e compreso la vostra privacy policy.